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Racconti

Tutti i racconti che pubblico in questo spazio sono editi. Pertanto non vale la pena fare "copia-incolla", se non per un uso strettamente personale di qualche frase, o concetto, che dovesse piacervi particolarmente.



La paura di Carla per il vento

Erano refoli, nulla più. Aliti che spiravano muovendo appena i rami del mandorlo gonfi di fiori. Ondeggiavano lentamente trasportando con il ritmo del tempo il loro peso: prima a destra, poi a sinistra, di un paesaggio quieto come le giornate di primavera di quel secolo, di quell’anno, di quel mese che non ricordo. Forse era marzo o aprile o maggio o forse non era nessun mese ma un giorno qualunque.
Eppure, nonostante fossero refoli, Carla provava uno spavento terribile per quello stormire di foglie e fiori e rami che erano un tutt’uno con la sua voglia di trovare un riparo dentro il quale quel vento smettesse di soffiarle in faccia. Era una delle sue mille fobie, in apparenza innocente, ma portatrice di tutti i malesseri possibili, e anche di quelli costruiti con l’abilità di chi medita a lungo prima di vietarsi di vivere. Il vento, come la pioggia che avesse il vago sentore del temporale, come un gatto paralitico pronto ad attraversarle la strada con le stampelle, come i topi, i serpenti, le mosche e le zanzare, le lucciole e un moscerino, rappresentavano per lei pericoli.
Le angosce riusciva a trasmetterle con un’arte sopraffina. Non solo le viveva ma le faceva vivere anche agli altri, colf e cane compresi. Ogni impercettibile sbandamento dovuto alla sua proverbiale labirintite, le sembrava una scossa di terremoto, così come la strada bagnata dalla pioggia riusciva a trasformarla in un lago ghiacciato pronto a incrinarsi per inghiottire chissà chi, chissà cosa, e soprattutto, per quale ragione quel chissà chi o chissà cosa, dovesse essere per forza inghiottito dalle gelide acque di una primavera stanca. Convivendo con le previsioni del tempo, era in grado di dire a tutti, ma proprio a tutti, se sul loro tetto, sulla loro testa, sul cofano dell’auto o sul sellino della moto avrebbe piovuto, ci sarebbe stato il sole o una nebbiolina leggera, o un manto di smog pronto all’effetto vetriolo su guance imperbi, avrebbero coperto l’inutilità delle loro esistenze.
Carla era una maestra nel prevedere tifoni che non sarebbero mai arrivati, “e se fossero arrivati?”, amava ripetere con l’aria disincantata di chi sa di saperla lunga. Un dolore piccolo piccolo o una digestione tardiva, erano i sintomi inequivocabili di un infarto imminente, di una paralisi incombente, di un tumore allo stato latente. A volte condiva il tutto con un pizzico di Alzheimer, mentre Parkinson sarebbe arrivato di lì a breve. Se le paure, le fobie, i sensi di smarrimento che la coglievano dopo una ventata, fossero rimasti nell’ambito della sua sfera privata, o quasi, non ci sarebbe stato nulla da obiettare. Ma aveva il vezzo di spruzzare ansie, timori, angosce e paure tutto intorno finendo di illudersi, così facendo, di svolgere il ruolo insostituibile di una specie di protezione civile preventiva. Nel corso degli anni questo modo terribile di affrontare le cose della vita si era acuito fino al punto di negarsi la quiete di un momento normale, di una passeggiata senza voltarsi continuamente, di un tratto di strada da percorrere senza guardare di sottecchi tutti i passanti intenti a pensare ai fatti loro. I vicoli erano sempre stati la sua passione. Il sentirsi stretta e protetta dalle mura di case anonime, ma lontano dagli sguardi indiscreti del resto del mondo, la tranquillizzava enormemente, quasi un piacere sottile nel rendersi invisibile confondendosi con il selciato, le pareti, perfino le vetrine: trasformarsi in un manichino, le appariva a volte l’unica soluzione possibile contro la curiosità della gente. La piazza? Una piazza qualsiasi? “Mica sono una esibizionista”, diceva inalberandosi e cercando con fare frenetico una rasserenante sigaretta in fondo alla borsa.
Il caso era disperato, e più il tempo passava più le disgrazie erano pronte ad abbattersi su di lei, intorno a lei, contro di lei. Un giorno però le accadde di innamorarsi. Un incanto da favola infantile fece scomparire del tutto la cortina che si era costruita in anni di paziente autoflagellazione. Vide il mondo sotto una luce diversa e perfino il vento cessò di farle paura. Si sentì nascere per la prima volta, ed era una nascita alla quale stava assistendo ora dopo ora, giorno dopo giorno, in prima fila, da protagonista assoluta. Accettò la puntura di una zanzara senza precipitarsi al pronto soccorso e alla prima indigestione lenta una camomilla, improvvisamente, la rassicurò. Nonostante tutto le restava ancora un ostacolo da saltare per poter dire di essersi trasformata in una persona normale. Una paura le era rimasta e stentava a farla andar via, a vincerla, a batterla con la sola forza di un pensiero che razionalizzasse i non sensi vissuti fino a quel momento. Questa, al contrario delle altre, era una paura vera e si poteva racchiudere in un pensiero: la paura di essere felice.


Find the Cost of Freedom
(Lettera d’amore e di libertà)

La prima volta che ti ho incontrato vestivi il bianco delle nuvole. Le luci di Victoria Station disegnavano arabeschi su un manifesto che diceva dell’India.
Eri immersa nella voglia della mia fantasia di volare altrove, in un posto dove accarezzarti e stringerti senza la paura di un no. Poi ti ho inseguito sulla riva di un mare spazzato dal vento e dalla malinconia. Correvi veloce verso l’orizzonte, e la tua scia si portava appresso il desiderio di vivere senza dolore in un posto dove la dignità non fosse merce rara e un sorriso figlio solo di se stesso.
Ti ho incontrato nelle mie passeggiate a perdere come i vuoti delle lattine calpestate dai mercenari. Ti ho preso per mano e portato con me, di là dal vento e dalla tempesta della violenza. Ho cercato di ripararti con le mani e con la mente, fino a quando anche l’intelligenza è diventata a perdere, stanca di soccombere.
Ma tu, mia libertà, non mi hai mai abbandonato, tenendoti stretta al mio destino e al coraggio di camminare lungo strade cosparse di mine e di sale buono da mangiare. È stato quando ho avuto paura di perderti che, aprendo gli occhi, mi sono reso conto di dove stavo vivendo, per chi stavo soffrendo, per cosa avrei dovuto lottare invece di restare inerme a leccarmi le ferite di una sconfitta prevista. Ho girato allora la prua verso il largo, facendoti sedere al riparo dal maestrale, fino a quando la torre del faro ha illuminato la via, il raggio di luce non si è perso fra mille balbettii e le barche hanno ripreso a pescare. Era anche la rotta verso Lhasa, quella che passa vicino la casa serrata di Aung, l’asfalto con il corpo di Neda e il pianerottolo insanguinato di Anna. Allora, mi hai stretto forte e il terrore di non significare più nulla si è impossessato dei tuoi occhi, fino a che li hai chiusi in un sonno che aveva tardato ad arrivare ma che, una volta venuto, ti aveva fatto sospirare e sognare. Quante volte abbiamo sognato insieme, io e te.
E quante volte, il solo pensare che il nostro era un sogno avuto in comune, ci ha dato una gioia immensa e un vago sapore di vaniglia in bocca: il gelato della domenica prima dell’arrivo dei tank.
Sconfitti, ci siamo sempre rialzati convinti che non potesse finire con un segno di resa il nostro odio verso i violenti e chi ruba i sogni ai bambini giocando da adulti. Siamo finiti nel deserto, e abbiamo atteso che verso di noi si fiondassero tutti quelli che sono in fuga dal destino e da chi pretende di comandare non sapendo dialogare. Quante parole abbiamo speso e quanti sogni interpretato a chi non capisce l’importanza della tua presenza, delle tue braccia che avvolgono in un calore che strugge l’anima e pacifica la coscienza. Non sei un ricatto né potresti mai esserlo, sei solo un grande regalo, il più grande di tutti, quello che in molti vorrebbero non avendolo mai posseduto. Sei la mia, la nostra libertà. Sei un pensiero cresciuto nel tempo e distante mille miglia dal compromesso. La tua grandezza sta nell’interezza della tua presenza. Non sei mai a metà, non ti si può comprimere né blandire né brandire come un pericolo. Non sei mai troppa, e quando lo sei è perché il fastidio di chi vorrebbe gestirti non supera la bellezza dell’averti. Sei dappertutto e in ogni momento, e quando ti mostri il fascino che emani è una via senza ritorno nella quale puoi solo guardare avanti perché dietro c’è il vuoto. Amo il tuo modo ostinato di combattere ricorrendo solo alle armi dell’intelligenza e mai al terrore dei gesti, convinta come sei che basta farti entrare dallo spiffero di una porta per inondare la casa di profumi e delizie, un giardino dell’eden che prende forma nel soggiorno. Non hai bisogno delle vergini bianche né del latte che scorre a fiumi, non hai bisogno di croci né di morti, il peccato non ti appartiene e perdono non lo chiedi mai perché sono gli altri che lo chiedono a te. Ti calpestano, ti violentano, ti reprimono, cercano in continuazione di rinchiuderti in una gabbia da cui farti uscire a intervalli stabiliti, al ticchettio di una sveglia starata, a un assurdo modo di concepire la tua presenza e la tua enormità. Un giorno ti ho raccolto stremata sulla strada, un lungo corteo aveva invocato il tuo nome ma, come usciti dagli inferi della disumanità, uomini si erano accaniti su di te con una ferocia che non aveva nulla di bestiale perché gli animali, loro si, sono liberi. Mi avevi guardato come a chiedermi “perché?”, e io non avevo saputo cosa risponderti. Ti avevo preso fra le braccia e stretto forte pronto, se me lo avessi chiesto, a darti la mia vita. Ma tu non l’hai voluta, stanca di chiederne nel tuo nome. Mi piacerebbe andare con te dove l’aria è pura e il pensiero può volare senza essere costretto a fare i conti con l’oggi, il domani, il chissà. Magari esiste davvero, ma il problema è che ci stanno spingendo a credere che tu, mia libertà, sei qui e nessuno potrà mai imprigionarti e nessun randello spezzerà mai il gioco dei ragazzi in una scuola. Usano il tuo nome con una facilità che indigna, svuotandolo della sua essenza, spacciandolo per un termine senza senso e affermando che ci sei. Ma tu non ci sei. Di te non è rimasto che un ritratto ingiallito tirato fuori, a comando, da truppe di clown che lo mostrano a chi si accontenta di guardare senza il piacere di lottare. Chi non ti ama non può comprenderti, non può scivolare con te nel gusto di esistere, perché non si è vivi se non è possibile stringerti e godere di te, come di un cornetto caldo all’alba di un giorno che vorremmo sempre nuovo.



Sabrine, mare d'inverno

La nuvola a forma d'autunno copriva il sole incatenato. La luce, uno sola, mostrava ad Alex l'immenso.
Era il bagliore dei “Dodici Apostoli”, con le onde del Pacifico che si frangevano sulla costa australiana, in attesa che un pinguino in frac stappasse lo champagne.
Sabrine osservava la cresta delle onde di luglio con la curiosità di chi crede che un braccio intorno alla vita, possa risolvere ogni problema.
Sabrine era l’esistenza, Alex il contrario di tutto, anche di sé e degli altri; il nulla e la musica, la violenza e la dolcezza, l’arroganza e la tenerezza in un crescendo di impressioni.
Il loro incontro era stato contraddistinto fin dall’inizio da una specie di rincorsa verso l’annientamento reciproco. Era difficile capire cosa li accomunasse se non quel senso di distruzione che sull’Alexanderplatz, accompagna i freak figli del loro tempo. Quel viaggio, e la scoperta delle origini della vita, doveva servire ad entrambi per capire il dopo. Un fazzoletto adagiato sul collo, una rosa appassita figlia dell’inverno, il 1945 come un tam tam d’estate, quando l’estate sarebbe arrivata.
Alex le aveva chiesto perdono. Si domandava ancora se fosse servito. L’importante era che Sabrine, avvolta nella giacca a vento regalata dalla sabbia, stesse vivendo con lui la luce del tramonto. Il suo cuore, figlio delle guerre, era un brillante impazzito trasportato da una zattera. Aveva detto “ti amo”, come non mai, come avrebbe ancora fatto. I capelli di Sabrine compresero e si adagiarono sul cappotto blu di un figlio del vento.
Le ore trascorse in aereo fuggirono come una stella cadente nell’immenso dell’amore che per la prima volta aveva provato in un impeto di gioia non repressa. Ferragosto era passato come il Natale, con una velocità tanto impalpabile quanto aritmica. Una scheggia di figli nati per caso dai confini di un mare in cui affogare.
L’autunno italiano stava cedendo il posto a una farfalla sui glicini, mentre la luna di giugno aveva assunto l’aspetto di una stella dispettosa. L’Oceano era verde di alghe vicine, mentre le barche ritiravano le reti convinte di aver catturato il mondo, mettendolo in tasca.
Il cancello bianco di legno permetteva ad Alex di vedere Sabrine, di berla, di amarla come se il resto non fosse esistito. Parlare d’amore. Perché?
Alex parlava d’amore con se stesso e Sabrine era lì, favola di mezzanotte che non si sveglia neppure con il profumo acre della tempesta. Radio Londra stava trasmettendo mentre il padre di Alex venne portato via dalla violenza. Era rimasta un’immagine, quella di una camicia bianca insanguinata che contrastava con quelle a fiori degli americani che sarebbero arrivati poco dopo. Era rimasto il mare d’inverno, come un relitto naufragato nei sogni di una democrazia incompiuta guardando negli occhi i suoi amici, ragionieri frustrati. Il salto di Tanja oltre la linea di confine, era rimasto nella sua mente e nelle immagini violente di una vita affrontata di corsa.
Sabrine, mani intorno al bavero della giacca, osservava Alex nascondersi alle lacrime, fuggire dai pensieri, mescolarsi con le foglie mosse dal vento. Tanja era corsa incontro alla libertà molto prima che sulle ali di un gabbiano, facesse la sua comparsa sulle rive del Mare d’Azov. La foto di Tanja distrutta dal benessere, Alex la portava appresso, come un assurdo feticcio di paglia, come quattro note bucate di un pianoforte nell’aria e di una chitarra scordata all’alba. Foto emblematica di un bacio strappato alle convenzioni, con un paio di occhiali persi nell’obiettivo di una faccia vuota.
Sabrine era stata un’apparizione in uno dei tanti momenti di scoraggiamento. Aveva riempito con il suo sorriso quella parte di Alex destinata a rimanere per sempre incompiuta. Come le frasi sconnesse sul suo futuro e un uomo che la schiavizzava fino a farla sentire un vuoto nel nulla.
Alex le aveva portato in dono la dolcezza, un soffio di aria pura in un controsenso esistenziale. Sabrine si era avvinghiata a lui in un abbraccio morboso. In quel momento, a Piccadilly Circus, aveva dimenticato tutto. Tutto ciò che voleva dimenticare, compresa la festa e la bicicletta che solcava la marea delle contraddizioni di maggio e le violenze delle onde di novembre. Tutto era compresso in una immagine devastante di gioia mista a dolore fino a morirne. Sabrine era scioccante nella sua bellezza, nel suo modo di fare, nei suoi atteggiamenti. Alex l’aveva amata così, come un uccello ama il grano e un bambino gode della neve.
Era bastata una birra per vivere Alice in un paese delle meraviglie condannato al piacere: le loro vite manipolate dall’istinto. Fuori pioveva e Sabrine gli si avvicinò.
Scavarono insieme per comprendere il volo e assaporare il vuoto di esistenze scevre dal sorriso e intrise di pianto. Non bastarono né la nebbia né il vapore delle fogne del Bronx. Era tutto racchiuso nelle loro mani di gesso. Una vita portata via come fosse un cero, il venerdì santo. Un bacio nel palmo poi più nulla. Era il seguire ed inseguire il muschio sull’ingresso, il sapore della primavera, la freschezza dei fiori.
Ancora una stagione senza amore.
Alex e Sabrine seguirono con gli occhi le onde facendosi cullare da cinque sensi mai così infuocati. Un porto indefinito senza navi, senza barche, senza vele. Un luogo vissuto insieme mentre l’acqua univa e divideva l’orizzonte senza un ritmo logico, senza musicalità, senza ricchezza.
Stavano aspettando che il sole entrasse dalle finestre a sconvolgere il profumo del caffè fresco, al mattino.
Non era possibile ballare né nuotare a mezzanotte nel mare dei sogni. Alex voleva sognarla ma non era il sogno ciò che voleva. Aspettando la stagione buona.
Pensò all’Africa credendo mille volte di evadere dalla sua prigione di sale e dal suo mondo di illusioni. Credette di essere un bambino che contava le onde del mare mentre non era che un innamorato sconvolto dalle fitte del cuore. Disse cento volte “ti amo” e lo ripeté fino alla noia, fino all’oblio.
Sabrine aveva le labbra di zucchero e il seno dolcemente abbandonato sulla pelle di luna.
“Imagine” suonava nel juke-box e lui credette di vivere il paradiso, ma non era che la terra marrone, fredda e scorbutica del limbo. La vide dispensare baci e carezze e pensò di aver sbagliato tutto, ma quello era l’immenso. Quando la baciò innalzò una cattedrale piena di fumo e di incenso; una notte di Pentecoste stando in lei. Le ombre dei pini spiccavano neri al tramonto. Coni impazziti di gioia pieni di confetti amari ma era lei, fino alla crisalide, coperta di piume e gonfia di musica, stella puttana vicino a chi?
Alex e Sabrine non sapevano nulla l’uno dell’altra ma erano un’ancora sicura, un approdo certo, un luogo in cui parlare d’amore e vivere con la melodia degli archi di una sinfonia. I giorni erano trascorsi senza scoprire dio ma il sonno parlava d’amore e l’incubo era il domani, pur essendo molto lontano e senza compagnia.
Il bicchiere era scomparso e il caldo dei liquori aveva ceduto il passo all’incendio, alla passione, al gioco, alla festa, al rito. Poteva apparire strano eppure, quell’asfalto lasciato alle spalle riusciva a far dimenticare il profumo dei tanti capelli assaporati nella ricerca inutile di un’altra lei.
Il neo sulla guancia di Sabrine era un fiore da cogliere e far appassire nel libro delle beatitudini, accarezzare e strappare da un cesto di emozioni. Ma cosa stava succedendo? Di cosa stava parlando?
Alex si ricordava solo di loro. Sabrine era l’altra.
Il mercante d’acqua proseguiva per la sua strada incurante del sole e del mondo.
L’importante era non dimenticarsi delle meteore, e del confine di lino tracciato da Marilù quando sperava di tornare a sognare tra gli angeli. Tutte le rose erano appassite e il deserto sfibrava i raggi del sole.
Le tuniche blu al galoppo riempivano il baratro che separava Alex dal resto del mondo. L’emozione e il calore avevano fatto sì che gli sguardi di Alex e di Sabrine si incrociassero mentre il sole stava tramontando sull’oceano impazzito. Bastò poco per capire che la vita come l’amore era lì, in quel fazzoletto di erba secca, in quel paesaggio ingiallito da un sole freddo e intimidente.
Alex tese la mano che lei prese e baciò. Sabrine non era cambiata anzi, era ancora più bella.
I “Dodici Apostoli” stavano vivendo una insperata energia di piazza.
L’auto si allontanò dopo aver disciolto l’ultimo sguardo verso l’immensità del sogno.
La mano di Sabrine sfiorò quella di Alex, mentre il sole vergognoso si nascose dietro le nuvole di un mare d’inverno finalmente bianco.



Dichiarazione d'amore in cento righe, una parola e un frac

Lo avevo trovato. Sapevo che da qualche parte, in qualche luogo nascosto scoperto dalla sua fantasia malata, doveva averlo messo. Sapevo che prima o poi, magari inseguendolo sulle rive del Tamigi, lo avrei scovato. La Senna era distante, come Parigi, come la rhumérie di Saint Germain, quelle delle mie notti perse inseguendo Marguerite. Lo sapevo che mio nonno non l’avrebbe gettato. Erano stati troppi i giri di danza e troppe le feste, le serate di gala, i ricevimenti cui aveva partecipato per disfarsi di quello che per lui era diventato un vero e proprio oggetto di culto buono per le grandi occasioni. Me ne aveva parlato da bambino, mostrandomi foto che rischiaravano alla luce delle nostre lampadine nelle lunghissime notti d’inverno, e con la neve a far da sordina. Le ricordo quelle foto, anche se non so che fine avessero fatto. Se le avessi ritrovate le avrei conservate gelosamente. Conoscevo le storie di quegli scatti, tutte le storie vere, verosimili, inventate di sana pianta che quegli attimi rubati si portavano appresso come una maledizione della storia e della vita, degli amori perduti e di quelli trovati per caso fra le pieghe di mille domande senza mai una risposta.
Il vecchio frac di mio nonno.
L’abito non era sgualcito e c’erano ancora tutti gli accessori: il fazzoletto di seta bianca, i calzini neri, lo sparato inamidato, i gemelli d’oro, il papillon, i guanti, il bastone laccato con il pomello d’avorio e infine lui, il cilindro, uguale a quello di Fred Astaire. Miracolosamente conservati, quegli oggetti mi avrebbero aiutato a fare una cosa che mi ronzava in mente già da un po’ di tempo: vestito di tutto punto mi sarei seduto al tavolo, avrei tirato fuori dal cassetto la carta morbida e il pennino di legno verde, e avrei scritto una dichiarazione d’amore per la mia lei, la prima vera dichiarazione d’amore della mia vita. Sapevo bene, e il tempo me lo confermò, che il sentirsi parte dell’altro era un sentimento a senso unico e riguardava solo me. Ma in quel momento era solo una sensazione, una percezione fastidiosa e nulla più, una mosca che mi ronzava intorno e che cercavo di scacciare con gesti ripetuti e lenti della mano. Ero un innamorato perso fra le nebbie del nord e il caldo accogliente del sud, il vento e il sole, la pioggia e la neve fino all’uragano che mi prendeva il cuore stringendomelo forte. Amavo come non avevo mai amato prima, ma forse non sapevo farlo, mi mancavano le coordinate essenziali, non ero in grado di comunicarlo nella sua interezza e nella sua totalità ma l’amavo, l’amavo di un amore talmente profondo in cui, se solo me lo avesse chiesto, mi sarei buttato a capofitto correndo il rischio di affogare. E sarebbe stato un bel morire.
Il frac mi stava a pennello. Io e il nonno avevamo la stessa corporatura e quell’abito così ricercato e ancora vivo, sembrava mi fosse stato cucito addosso. Mancava solo la lettera, la dichiarazione, il mettere in fila pensieri se solo fosse stato possibile. Mancava che l’inchiostro iniziasse a tracciare segni sulla carta bianca macchiandola di sentimenti e di gocce di pianto, delle emozioni e dei sussulti di un uomo che aveva solo una colpa grande come il cuore, quella di amare troppo. E l’inchiostro prese a scorrere, come un fiume quando sa di dover creare e non distruggere.
“Amore mio, quanto tempo! Sembra una vita eppure è un istante, quelli che il mio amore trasforma in ore e vorrebbe eterni. Ho ripensato a ogni cosa fatta insieme, ai momenti nostri che qualche tarlo invidioso ci rubava, alle tue ansie e alle tue inquietudini, ai tuoi gesti disperati e alle braccia che mi stringevano forte, come fossi tuo. Penso a te in ogni momento utile e inutile, quando sto con me e quando mi trovo con gli altri, quando mi sento disperato e quando il cuore impazzisce come fosse una manciata di coriandoli spersi nel vento del carnevale. Vorrei essere con te su un carro non di maschere, a cui basta un po’ d’acqua spruzzata sul volto per riprendere le sembianze di tutti i giorni, ma di stelle. È su quel carro di stelle che vorrei portarti quando sento che il mondo intorno mi sta crollando addosso, perché tu sei la mia forza e la mia debolezza, il mio tutto e il nulla che ho cercato di imbrigliare nelle albe di ogni giorno vissuto. Penso a te quando sono triste e quando mi capita di essere allegro. Ti sento dentro quando dentro vorrei solo annientarmi. Ti accarezzo anche se non te ne accorgi perché sei lontana e perché le mie mani non possono volare sulle ali della tua fantasia. Credo di averti amato da sempre, da prima che facessi la tua apparizione nella mia vita. Credo di averti inseguita sapendo che da qualche parte dovevi esistere, che c’eri e che se ti avessi trovato non ti avrei lasciato più andar via. Di te amo tutto, anche quello che non dovrei, che non vorrei e anche quello che mi fa star male e sentire distante. Amo tutte le cose che parlano di te perché sono tue, e io ti amo per come sei e non per come vorrei tu fossi. Me ne sono reso conto con il passare del tempo, e nel momento in cui sembrava dovessi saldare definitivamente il conto con una vita che ho sempre preso in giro ritenendomi immortale. Me ne sono reso conto quando intorno c’era il bianco e nessun pastello a colorarlo. L’ho capito quando hai iniziato a scorrermi dentro come l’estate buona, il sole di Luanda, la costa dell’Atlantico, le vie di Dublino e la Haas, quella che fa godere di Gerusalemme come fosse davvero la terra promessa.
Ti amo per le emozioni che mi dai, per il tuo modo a volte scontroso di fare e per le dolcezze infinite di cui ti ricopro e che non riesci mai ad apprezzare fino in fondo come vorrei e come vorresti. Ti amo quando cerco di carpirti l’anima mentre facciamo l’amore, perché quello è amore nell’amore. L’amore con te è linfa, è l’odore dell’incenso di San’a’, è il cedro di Beirut e il pompelmo della piana di Jaffa. È la zagara di Marina di Ragusa e la neve del mio paese quando scende lenta, e tu la guardi trasognata cercando di fissare quel momento nei tuoi occhi per non dimenticarlo più. È Varinin ed è Zivago, la mia Lara e la violenza delle emozioni, la dolcezza della poesia e la delusione delle domande irrisolte. È una canzone accompagnata dalla balalaica, mentre intorno il cielo si tinge di rosso e i campi sono gonfi di grano; il nostro amore è la vita e per quella vita, per quel sogno, per quella dimensione d’altri tempi abbatterei ogni mulino a vento con la forza della mia disperazione. Ti amo perché non amarti sarebbe impossibile, come è impossibile non pensare a quello che provo quando sono in te e siamo noi, solo tu ed io, mentre il resto corre lontano e si trasforma in un’antilope nella savana senza un leone che la insegua per sbranarla. Il mio amore per te è questo: è tutto il mondo che vivo e che mi vive intorno, è la mia voce e il mio respiro, la mia aria e i miei profumi preferiti, gli aromi che mi inseguono e che sanno sempre di te e a te mi riportano, mano nella mano verso casa, dopo il giorno fuori. Sei le mie notti, quelle che trascorro senza di te e immaginandoti fra le braccia di un altro, quelle che fanno vivere i miei incubi e le mie incertezze, i dubbi e ogni piccola amarezza non più cullata, non più voluta, non più desiderata e allontanata con la paura che possa trasformarsi in altro, in tutto ciò che di sgradevole sia in grado di interrompere un sogno che voglio lungo come un’eternità pronta a ricominciare. Sei la mia vita e se vuoi ti do la mia, puoi prenderla e gettarla o tenerla e accarezzarla un po’, con tutta la delicatezza che sai e che hai, e senza nessun ostacolo, non da parte mia. Sei la mia vita e ti regalo la mia, te la consegno fra le mani, nella tua anima e nel tuo corpo sapendo che saprai cosa farne, sapendo che è davvero tua, sapendo che se lo vorrai non fuggirà né verso altri porti né altre baite né sentieri accidentati. Non ho più intenzione di cadere, amore mio, sarebbe difficile rialzarmi, difficilissimo muovere un passo, impossibile amare ancora con la stessa intensità e la stessa lucida follia. Voglio ancora la magia, la voglio nelle cose grandi e in quelle che sembrano nulla e la voglio con te. La pretendo perché la sento nostra, perché ci appartiene, perché ne ho capito l’importanza quando tutto sembrava destinato a finire, e la magia non era che una parola vuota pronunciata per sbaglio, un lapsus, un refuso, un assurdo esistenziale.
Sai perché ti amo? Perché ti amo! E l’amore non va alla ricerca di nessun aggettivo, è già un superlativo.
L’amore è un’altra dimensione anzi, è semplicemente tutto. E quel tutto voglio dartelo, e quel tutto lo vorrei da te perché questo è l’amore e questo è amare, il resto lo lasciamo ai cuori inariditi e a quelli che lo scambiano per una parola di circostanza detta per quietare chi l’aspetta con ansia, come me il vento del deserto. Sto ascoltando la nostra musica e mi chiedo se davvero esisti. Però ci sei, sto parlando di noi, di me. Sei la mia dimensione rarefatta come l’aria di maggio, come la lava che brucia e scarnifica, come il mio sogno nascosto durante le pazze giornate ricche di controsensi e prive di sensazioni. Mi sei entrata dentro con la forza di un passerotto infreddolito e la debolezza di una donna piena di paure. Sei dentro di me come il sogno del mare di settembre e il verde di giugno, le note di un’armonica a bocca nella prateria e Manitù che gusta la scena assaporando un vecchio bourbon. E poi, amore mio, sei la mia donna e non è un caso che tu lo sia. Dentro e sotto, c’è tutto quello che ho sempre desiderato. Sei tu e questo mi basta, sapendo che non sei il giocattolo nuovo di un bambino capriccioso ma l’amore, il mio unico vero amore. Immenso”.




Quello smalto color non so.


Girava. Stava girando il mondo intorno. Cercava un appoggio, un sostegno, una sponda qualsiasi per non cadere. Tutto girava, ma Nico non voleva crollare a terra colpito dal fulmine della solitudine. Lui voleva restare in piedi, nonostante la testa gli andasse prendendo direzioni sconosciute e le luci dei lampioni non lo avessero mai infastidito tanto.
Le falene gli sembravano aviatori della prima ora, quelli reduci dalla lettura del “Manuale del perfetto pilota in tredici lezioni”, quelli che stentano a decollare e prima di atterrare raccomandano l’anima a Dio; quegli strani personaggi, in una stiratissima divisa blu notte con i galloni argentati, capitati in un aereo per caso, come per caso Nico, quella sera, si era trovato a camminare lungo una strada di periferia. Oddio, periferia... Più che altro era un ammasso deforme di ombre di caseggiati senza logica, senza calore e senza la parvenza di un’umanità che da quelle parti doveva, nonostante tutto, scorrere. Guardando avanti, appena oltre il ponte, Nico vedeva le luci potenti e intermittenti del luna park. Si rincorrevano in una serie di balli senza ritmo e danze senza senso. Erano di tutti i colori e cambiavano tonalità a seconda dell'aria e del vento che spirava. In parte coperto alla vista da un abbozzo di filari di alberi, il luna park era musica e vita. E si sentivano i sospiri ruffiani, che provenivano da altoparlanti starati, descrivere le meraviglie del “Tunnel dell’amore”, come se l’amore fosse un tunnel e non un grande, meraviglioso, stordente, incommensurabile, smisurato e cervellotico hellzapoppin.
Il vento gli soffiava il fumo della sigaretta negli occhi, provocandogli degli irritanti bruciori causa delle lacrime che sarebbero arrivate di lì a poco. Ma Nico non aveva nulla su cui piangere, anche perché, stranamente, quella poteva essere definita una sera quieta. La serenità era un concetto per lui difficile da sviluppare e mai realmente sperimentato, anche se desiderato spesso, anzi ambito, quasi disperatamente inseguito. Gli sarebbe piaciuta la serenità per un ballo, per quattro passi di slow mossi con l’intenzione dichiarata di abbracciarla un po’, di provare a stringerla per scoprirne l’effetto sulla pelle, di darle un bacio piccolo, insignificante, senza alcun erotismo prepotente e nessuna velleità romantica. Non era una dimensione astratta, la quiete.
Continuava a girare. Tutto girava, e sul ponte che sovrastava il fiume puzzolente di anticrittogamici e diserbanti, sembrava girasse ancora di più. Era un giro, solo un giro, ma lo stava infastidendo.
A mano a mano che si avvicinava al luna park, si rendeva conto della totale disperazione in cui quell’ammasso di illusioni infantili versava senza ritegno. C’erano, a contarle, sette persone, tutte giovani, ubriache, felici di spruzzarsi addosso fiumi di birra come fosse champagne. Eppure le luci, i colori, le voci, i baracconi a pieno regime, gli avevano fatto immaginare una folla strabocchevole fare la coda per visitare il “Tunnel dell’amore” o per un giro shock sull’autoscontro. Nessuno. Non c’era praticamente nessuno. E tutto funzionava come se lì, in quel momento, ci fosse il mondo intero. Anche quella, in fondo, era un’illusione; era tutto solo un gioco delle parti per chi aveva ancora la forza e la voglia di recitarne una; attori senza pubblico e scrittori senza lettori, il mondo per un mondo che non c’è, e che non ci sarebbe mai stato. Forse Nico non pensava solo al luna park deserto, ma al deserto vero, quello rosso, quello che l’harmattan disegna ricamandone la sabbia con l’abilità di una vecchia merlettaia, e l’incoscienza di una nipotina che fa e disfa le matasse di filo come fossero capelli di un angelo biondo in volo mossi dal vento. Quello era il deserto che aveva visto, ed era lo stesso di Djibril che sarebbe morto poco dopo, in un asettico ospedale, attaccato a una macchina, quando la sua speranza era stata un’altra e non prevedeva una parete bianca, piena di monitor, a fare da scenario. Djibril, come Nico, avrebbe voluto andarsene fra le braccia di mille donne, perché per loro aveva vissuto, per loro aveva cantato le sue migliori ballate di immagini, per loro era riuscito a guadare fiumi in piena, attraversare deserti riarsi, sfidare tempeste e farsi dilaniare dall’impazienza di una corsa folle verso il piacere. Nico non era così. Più che correre aveva aspettato che qualcuno lo facesse per lui. E, quando si era reso conto di aver perduto tutto, aveva iniziato a parlarsi più a fondo, a cercarsi con più insistenza, a provare a percepire in anticipo quelle che sarebbero state le sue sensazioni. Ma, quando aveva cercato di essere diverso, anzi di riappropriarsi di se stesso, era troppo tardi. Il cronometro della sua esistenza si era fermato, e non ci sarebbe stato modo di farlo riprendere a misurare il tempo. Non gli era rimasto nulla e, non amando i rimpianti, non poteva neppure compiacersi del suo malessere, cercando di trovarne qualcuno da usare come alibi.
Girava. Tutto stava ancora girando, mentre gli ultimi ospiti disperati di quel luna park per cuori solitari, se ne stavano andando, bestemmiando al vento canzoni senza armonia. Era rimasto solo, come sempre. Si guardò intorno, accese una sigaretta e tirò una lunghissima boccata. Lo speaker dell’autoscontro lo stava fissando. Chissà quale film si era messo a girare... Lo seguiva con lo sguardo perso nel vuoto, talmente perso che poteva essere solo figlio di una sniffata chilometrica. Nico si voltò verso il 'Tunnel dell’amore' e vide la persona che, da una specie di garitta imbarazzante quasi quanto il suo giubbotto, da lontano gli era sembrato sospirasse. Finta bionda platinata, labbra rifatte, seno tracimante, sigaretta fra le dita, con unghie smalto color non so, lo stava guardando. Anche lei. Non si era mai sentito tanto in imbarazzo come nell’istante in cui si era accorto che i quattro occhi e i due sguardi dello speaker e della bionda lo stavano indagando. Non aveva capito se tutto quell’interesse fosse dovuto al suo essere un soggetto intrigante o se, come doveva essere, alla presenza solitaria di uno sbandato, in mezzo a uno spazio privo di qualsiasi personalità, con solo un cane e un gatto che attraversavano la scena. Si girò, e guardò con curiosità tutto quello che aveva a portata di occhi. “Che squallore!”, pensò. I ricordi lo fecero volare altrove, fino a farlo sprofondare nel magma di emozioni mai dimenticate e di immagini ancora vivide che gli penetravano il cuore con la crudeltà del morso avvelenato di un serpente. Eppure stava bene. Si sentiva bene, e la musica che in quel momento la sua fantasia stava ascoltando, lo riconciliava con gli errori della sua esistenza e le insulsaggini del suo ego spropositato. Allargò le braccia e accennò un passo di danza. Si stava convincendo di essere su una nuvola inondata dal sole. Tutto intorno, l’uragano stava dando il meglio di sé e gli angeli erano impegnati a scoprire a quale diavolo di sesso appartenessero. 
Era quella la nuvola sulla quale avrebbe voluto viaggiare il tempo necessario per compiere un giro intorno alle sue emozioni. Gli sarebbe bastato. Si sarebbe accontentato, o forse no. Nico aveva un rapporto molto intenso con le nuvole perché, al contrario di tanti altri uomini, poteva immaginarle, filtrarle e plasmarle seguendo l’andamento dei suoi pensieri, quelli che più gli piacevano, che meglio gli si adattavano, che più di ogni altra cosa lo avrebbero condotto lungo i sentieri dissestati dei sogni. Per Nico, le nuvole e i sogni rappresentavano due dimensioni contrapposte. Amava le nuvole quasi quanto odiava i sogni, soprattutto quelli a un passo dagli incubi di cui erano piene le sue notti senza sonno e i suoi sguardi persi, a mezzogiorno. Ma ci conviveva. Cercava di farlo, perché il fantasticare era uno dei pochi agganci possibili con una realtà di cui aveva perduto le coordinate. Però, quel luna park non disponeva di nuvole vere, pure in tutta l’ampiezza di posti liberi e di uno spazio del quale stava godendo in una sera in cui la gente era rimasta in casa a guardare la tv, a leggere, a piangere, a litigare o, più semplicemente, a fare all’amore. Da una vita non provava il piacere di sentire fra le braccia il calore di una donna. Ne aveva dimenticato le caratteristiche, perfino quella delle pieghe nascoste della pelle di cui andava alla ricerca, quando la mente gli permetteva di essere lì in quel momento e non a spasso per il mondo. Ne avvertiva il bisogno. Stava diventando un’ossessione, quasi quanto il tirare a campare una giornata cercando qualcosa di cui nutrirsi per non schiantarsi a terra al primo urto leggero di una porta aperta per caso. Stava diventando più lancinante di una ossessione e Nico non poteva permetterselo, non poteva permettersi in alcun modo di sentirsi ancora un uomo. Eppure lo era, diavolo se lo era, ma ammetterlo gli costava una fatica enorme. Meglio stringersi nel giubbotto lercio, e in attesa di una degna sepoltura, che inseguire ancora una volta non più l’amore ma la sua essenza. Aveva abdicato tempo prima, tanto tempo prima, e ora si sentiva un re senza trono. Ma a Nico bastava poco per dimenticare la corte dei servi e delle cortigiane compiacenti al suono del liuto: un giro, solo un giro, mentre intorno tutto girava.
Aveva un intero luna park a disposizione. Poteva fare un giro solitario sull’autoscontro o salire sul vagoncino con i cigni del 'Tunnel dell’amore' o ridere di se stesso nella baracca degli 'Specchi deformanti'. Avrebbe potuto provare a far centro e vincere un pesciolino rosso al 'Tiro a segno', ma aveva paura dei fucili, anche di quelli caricati con i proiettili di gomma. Poteva tentare di infilare una pallina da ping pong in quei maledetti vasetti di vetro dal collo strettissimo oppure infastidirsi al contatto con le finte ragnatele del 'Tunnel dell’orrore', ma niente lo attraeva, tutto gli sembrava vecchio, scontato, anacronistico e fuori dalla storia, soprattutto la sua. Si sentiva fuori luogo, fuori posto, fuori contesto. Lui, l’unico essere umano presente in quello spazio di luci e colori e profumo di zucchero filato e croccante di nocciole, che non godeva del divertimento di nessuno dei giochi intorno. Sulla destra, quasi nascoste da un 'Toboga' che doveva aver vissuto stagioni migliori, vide le sagome dei cavalli di una giostra. La musica che sentiva era quella dimenticata di un carillon. Gli tornò in mente la scatola nera di legno di sua madre, quella che bastava sollevarle il coperchio per veder uscire una ballerina calamitata che faceva sempre lo stesso giro, anche se la musica cambiava. 
Gli sembrava, bambino che aveva delegato agli occhi il compito di raccontargli la vita, di essere l’unico spettatore in un immenso teatro sul cui palcoscenico una silfide in tutù inanellava giri armonici di un balletto pieno di sfumature e privo di passi incerti. Si beava di quella figurina dipinta a mano, che la sua fantasia trasformava in un essere talmente bello da assumere all’improvviso le sembianze di una fata in miniatura, pronta a compiere la sua quotidiana magia senza l’aiuto di nessuna bacchetta. Quella giostra lo incuriosì e le si avvicinò lentamente, gustandosi con gli occhi la distanza che andava diminuendo passo dopo passo. I cavalli erano bianchi, neri e rossi, e i finimenti dorati brillavano nel buio di una notte senza stelle come luci di un’eterna illusione. Non c’era nessuno. Il botteghino era desolatamente vuoto. La giostra girava per conto suo, girava e girava ancora intorno a se stessa, come un’anima persa in attesa che una Venere qualsiasi le indicasse il Nord. Nico guardò allora da ogni parte, e si rese conto che l’inebetito e la sintesi carnosa della bambola gonfiabile non erano più sulla scena. Era rimasto solo, mentre tutto intorno funzionava come sempre, come per tutti, come per il mondo intero. Dal momento del suo arrivo nulla era cambiato: le luci, i colori, gli altoparlanti starati, le voci gracchianti, erano rimaste le uniche vere presenze nel niente assoluto. Toccò un cavallo. Quello rosso. Poi iniziò a girare come la giostra, seguendola nel suo percorso, senza disturbare i cavalli intenti a fingere un galoppo presente solo nella sua fantasia e, chissà, forse anche nella loro. Carezzando il cavallo bianco, si trovò a incrociare gli occhi con quelli di vetro dell’animale di cartapesta. Sarà stato il suo disagio, o forse la fresca sensazione di benessere che non avvertiva da tempo, ma avrebbe giurato che quel cavallo gli avesse fatto l’occhiolino. Per avere la certezza di non trovarsi in un sogno, nell’ennesimo assurdo sogno delle sue notti senza sonno, si accese una sigaretta e questa volta, con la punta arroventata, si sfiorò il dorso della mano. Era sveglio, si trovava in un luna park deserto ma funzionante, e il cavallino bianco gli aveva appena fatto l’occhiolino. Che qualcosa non funzionasse, fu il primo pensiero che gli venne quando sentì una voce che lo invitava a salire sulla giostra. Su quella giostra che il carillon rendeva viva e intrigante, vera e falsa nello stesso momento, un assurdo e un assioma, una frottola raccontata a se stesso e una fuga in avanti fra le nebbie di mille contorsioni mentali. Ci salì, sulla giostra, e sedette prima sul cavallo nero, quello che non aveva toccato; poi, via via che il giro proseguiva, cavalcò tutti i cavalli come se si trovasse nei verdi pascoli del cielo, fino al momento in cui si rese conto che ciò che avvertiva sotto di sé non era il duro della cartapesta, ma il morbido di una groppa. Spiccò un salto dei tempi migliori, e cercò di allontanarsi in fretta da quel luogo che poteva anche essere magico ma che, per un istante, lo aveva terrorizzato.
Girava. Tutto girava. Nico si rese conto che intorno a sé tutto girava come fosse l’unico movimento possibile, il meno faticoso, il meno impegnativo. Ripensò a tutti i giri che nella sua vita aveva compiuto, senza che ci fosse una giostra un po’ pazza a rendergli il cammino più gradevole, meno faticoso, più emozionante. Ripensò ai giri intorno alle sue idee e alle sue parole, alle sue prese di posizione e ai suoi viaggi interminabili alla scoperta dell’infinito. Pensò al letto sfatto che avrebbe trovato a casa, e all’odore acre di muffa che gli avrebbe fatto compagnia appena si fosse ritrovato fra quelle mura. Ripensò ad altri odori, ad altre case, ad altre mura e, nonostante in molte di queste non avesse mai avvertito l’odore di muffa, quello che spiccava prepotente era il puzzo dei pensieri morti che vagavano in cerca di qualcuno che sapesse apprezzarli. La giostra era ancora lì, girava e continuava a girare. Tutto, intorno a Nico girava. Perfino il mondo, quello che aveva cessato di attraver-sare in un giorno in cui la sua vita aveva detto basta alle finzioni. Lui aveva accettato di buon grado la proposta della sua esistenza, e ne aveva fatto tesoro senza rimpianti, senza alcuna amarezza e con la certezza del costo che avrebbe dovuto pagare. Nico lo aveva fatto e lo aveva pagato, quel costo, come ora avrebbe voluto pagare il mezzo giro sulla giostra, prima che la cartapesta diventasse carne e il carillon smettesse di suonare.
Girava. Tutto girava, e girava pure il mondo. La musica aveva smesso di torturargli le orecchie, le luci si stavano abbassando. Tutto avveniva senza che intorno si avvertisse una presenza umana qualsiasi: né un gatto né un cane, e neppure un topo sospettoso o un gorilla geloso. Nico accese l’ennesima sigaretta di una sera che stava trasformandosi lentamente in notte. La tenne stretta fra i denti e infilò le mani nel giubbotto. Tirò fuori un chewing-gum scartato e mangiucchiato e lo mise in bocca: un po’ di mentolo riuscì ancora ad assaporarlo.
Girava. Tutto girava. Intorno a Nico quella sera girava il mondo intero. Forse il mondo non aveva nulla da fare, oppure il dolcissimo Nico era riuscito a fargli intravedere un barlume di tenerezza perduta fra mille fiocchi di neve scesa d’estate. Quando si rimise sulla strada, inseguendo l’ultima spirale di fumo dell'ultima sigaretta, pensò al mondo che gira e a se stesso, che quella sera aveva girato con il mondo. E con un cavallo di cartapesta bianca con i finimenti d’oro che gli aveva fatto l’occhiolino.
Girava. Tutto girava. E girava anche il suo mondo.





Arturo che dimenticò di esistere.


Volare. Era l’unica soluzione possibile. Facile e immediata, come l’alba del pescatore acquietato da una notte di sonno. Il fatto è che pure volare rappresentava un problema. Prima di ali, poi di vento. E Arturo sapeva che senza ali e vento, non si vola. Tutte le storie della sua vita erano disegnate sotto di lui. Volteggiandoci sopra appena un po’, e senza stravolgere le leggi dell’aerodinamica, aveva avuto la possibilità di ripercorrerle una a una. Al contrario di quanto gli era accaduto molte altre volte, Arturo aveva deciso di usare uno sguardo più benevolo verso se stesso. Si era imposto di volersi bene (quasi), di abbracciarsi teneramente e di darsi quei baci che gli erano mancati in anni di assenze devastanti e sguardi che si perdevano nell’aria, esattamente come le parole. “Non posso sempre violentarmi” – si diceva. E ne era convinto, Arturo, perché gli anni e il tempo trascorso gli avevano insegnato a essere calmo, paziente, riflessivo, aperto, disponibile fino allo stato di zerbino sul quale pulire suole sporche di niente, così, tanto per calpestarlo. Le rivedeva tutte, le storie. Quelle belle e quelle brutte. Quelle con un senso e quelle senza. Poi però, quando arrivava la notte e si accendevano le luci del più falso presepe del mondo, Arturo si guardava allo specchio ritrovandosi davanti un ectoplasma. Cercava in tutti i modi di ridarsi una dignità, ma era troppo evanescente quella figura per definirla umana. Passavano le ore e i giorni, i tramonti seguivano albe sempre più asfittiche, e il rincorrersi di colori e sensazioni, di stati d’animo e di delusioni, di momenti di esaltante incoscienza e di depressione allo stato puro erano, per Arturo, le altalene della sua esistenza. Un giorno decise di comprarsi un paio di scarpe nuove. Non lo faceva da una vita. Le dita dei suoi piedi avevano una forma strana e le scarpe impiegavano un po’ prima di adeguarsi a una dimensione non contemplata nel manuale d’uso dei calzolai. Maròn, come quelle che indossava al primo incontro con Elena. Con i lacci e un luccichio sinistro che faceva tanto cabaret. Strette, come sempre. Fastidiose, come sempre. Opprimenti come il senso di sconforto che lo accompagnava a casa dopo l’ennesima recita nel suo teatro dei burattini. Le aveva comprate maròn, le scarpe, perché dovevano servirgli a non fare una pessima figura quando qualcuno lo avrebbe raccolto dall’alto del suo viaggio di sola andata. “Mica sono un poveraccio!” Pensò. E si addormentò. Ore tormentate, la notte di Arturo. Quelli che stava vivendo non erano sogni, non vedeva salti irreali di situazioni, ma lo scorrere lento di inesauste scene di vita sfibrata. Le scarpe nuove erano posate sullo scendiletto e l’odore di cuoio gli entrava dritto nel naso. Fu accendendosi una sigaretta che si rese conto che una cosa avrebbe potuto farla. Dimenticarsi di esistere, di avere un nome, una storia da raccontare e un paio di scarpe maròn. Per il resto ci sarebbe stato domani.




4 commenti:

  1. il cavallo bianco c'è, l'occhiolino pure. Monta in sella e vai a farti una cavalcata sul lungomare. Nel tragitto potresti riconoscere l'amore. E quindi non galoppare, trotta.
    Chapeau.
    michaela

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  2. Non occorre tutto questo ambaradan per riconoscere l'amore, lo sai. A volte basta uno sguardo. Poi, letterariamente, volo dove posso...

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  3. forse non aveva paura di essere felice ma non voleva esserlo perché, come diceva Charlie Brown, ogni volta che lo era accadeva qualcosa di brutto.

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  4. rinunciare a essere felici per paura di qualcosa di brutto è folle. la felicità annulla ogni paura. la felicità fa volare.

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