Ciao
Federico. La mostra-omaggio di Giuseppe Di Caro a Fellini e al cinema
italiano
Quello
esposto è il cinema italiano “nobile”, le pellicole con la
griffe di Federico Fellini, Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola,
Alberto Sordi e Carlo Lizzani. Cinema indimenticabile, il nostro, che
prima di Checco Zalone e Alessandro Siani, aveva sempre qualcosa da
dire e immagini incancellabili da mostrare. Ma
così è la vita, e si trova sempre qualche critico pronto a
certificare che le scemenze sono il futuro.
Il vernissage di Giuseppe
Di Caro (uno dei reporter ufficiali del David di Donatello), nei
locali della meritoria associazione culturale “Artes & Co” di
San Benedetto del Tronto, è coerente con quelli “romani” degli
anni Sessanta e Settanta: presentazione dell'evento all'ingresso,
musica dal vivo che parte al taglio simbolico e virtuale del nastro,
primi “oh” alla visione delle opere esposte, cameriere che gira
con un elegante vassoio al posto del solito, scontato e poco
dignitoso (considerati gli assalti) tavolo del buffet.
E
se la colonna sonora d'ingresso è quella di “Amarcord”, non ci
vuole molto per capire chi, e come, si sta festeggiando. Pur essendo
stata scritta nel 1973, la musica di Nino Rota resta quel capolavoro
che il tempo, come per il buon vino, colora di magico. E prima ancora
di vedere le fotografie della mostra di Di Caro, davanti agli occhi
ci scorrono le immagini di Titta e della Gradisca, della neve che
cade su Rimini, di “Voglio una donna”, l'urlo di zio Teo-Ciccio
Ingrassia sull'albero della gita domenicale della famiglia di
Aurelio. A “Amarcord”, Peppe Di Caro dedica anche un angolo della
mostra, con tanto di sfere colorate coi volti dei personaggi che
spiccano in una dimensione 3D, e una curiosa lettera di Fellini che
chiede a Rinaldo Geleng di pensare alla locandina del film, disegnata
poi dall'americano John Alcorn. Tutta la mostra è giocata sul filo
del ricordo, di scatti figli di un'epoca paragonabile all'età
dell'oro della nostra cinematografia, con i personaggi che ne hanno
fatto l'orgoglio e che, come avrebbe detto un giorno Dino Risi: “Sono
morti tutti, Marcello, Federico, Giuseppe, Ugo, Vittorio, non ho più
nessuno con cui parlare”.
Il
merito della mostra di Di Caro è quello di tenere acceso il “fuoco”
della grandezza e di ricordarci che Federico Fellini è oggi più
amato dagli americani che dagli italiani. Il 31 ottobre saranno venti
anni da quando Fellini è morto inseguendo Giulietta. Non sono
previste grandi celebrazioni né riti di Stato né corone d'alloro al
monumento del Milite Ignoto, anche se il regista romagnolo un
“milite” lo è stato sicuramente ma non ignoto. Si potrebbe dire
che vale, per il cinema italiano, l'epitaffio che Dino Risi avrebbe
voluto per la sua tomba: “Nato a Milano, morto a Waterloo”.
Luca
Farina al Salone Sartarelli. La mostra dell'Angelo dai mille volti
Scrive
Alessandra Morelli sulla cartolina che accompagna la “piccola”
esposizione di Luca Farina: “Il legno come supporto epidermico e
levigato. La carta come fibra e trama tattile dell'immagine
fotografica. Il colore come contaminazione sciamanica e rivelazione.
Il senso della materia è completo e mobile. È un equilibrio
vibrante di spinte e reazioni di bellezza alchemica e concettuale.
L'artista punta lo sguardo e poi schiude col corpo la sua prospettiva
di compasso, aperta, circolare, protagonista nell'opera come le
linee, le colle, le polveri”. La “piccola” mostra di Luca
Farina ha una location inusuale: il salone di una parrucchieria, la
Sartarelli di via Laberinto. Per la cronaca, una delle vie più
vecchie di San Benedetto del Tronto, la via dei marinai e dei
pescatori, con le case basse, piccole, un piano-una stanza, una
appoggiata all'altra per risparmiare un muro e per dare il senso di
una collettività solidale unita, nel bene e nel male nella festa e
nei lutti, dal mare. Non c'è neppure una locandina che segnali
l'evento. Però basta dare un'occhiata dentro, attraverso i riflessi
della vetrina, per vedere le opere di Luca Farina sistemate negli
spazi disponibili. E allora pensiamo: ecco l'arte che va da Maometto.
E se all'inizio può sembrare una battuta, poi non lo è più perché
mai come in questi tempi bui, l'arte non esaltata dai mercanti ha
bisogno di visibilità, non di stampa patinata che la tratti su
riviste costosissime e inutili, ma di essere vista, di trovarsela
davanti, meritevole di essere capita: apprezzata è un altro
discorso. Luca Farina, lo ammette lui stesso, non ha inventato nulla.
Parte da una immagine fotografica e la sviluppa. Poi però ci si
sofferma sui supporti e ci si rende conto di quanta esperienza,
professionalità e amore per i materiali poveri (il legno su tutti)
ci siano nel lavoro di un artista giovane e molto sognatore. Luca
spiega processi, racconta del colore che cola sulla carta (“quella
pesante dei manifesti perché la carta normale non sopporterebbe né
acqua né colla”) e cerca di raccontare le storie che disegna sullo sfondo di una musa che si trasforma di volta in volta, in santa e
prostituta, uomo e donna, essere terreno o personaggio
sovrannaturale. E il sovrannaturale ha il suo peso. Nella produzione
artistica di Luca Farina, il trascendente è lì che ti tende la mano
per portarti in paesaggi innevati o nella struttura architettonica
rigida di un complesso industriale. Il tentativo è quello di far
capire che il mondo non si ferma allo sguardo pur attento di un
osservatore, ma va oltre, orizzonti compresi. Ci sono anche i telai
di legno vecchio, diremmo antico, che nascondono le opere-reliquie
che venivano mostrate ai fedeli il tempo necessario per una breve
preghiera. Luca Farina li ripropone quasi con lo stesso scopo, anche
se a essere mostrata è sempre, e comunque, la sua musa-icona. C'è
da segnalare, perché di disponibilità del genere ne vorremmo molte
di più, la sensibilità del Salone Sartarelli che ai clienti, dopo
una rivisitazione e un ammodernamento del look, offrono un tour
nell'arte utile a dare una scossa alla materia grigia che si trova
appena sotto chiome fluenti e fresche di shampoo. Ma noi lo sappiamo,
l'obiettivo principale più che la mente, è il cuore.
“Riscoperto”
un altro film di Ivo Illuminati. “Tragico convegno” del 1915, dal
Nederlands Filmmuseum al Cinema Ritrovato di Bologna
E sono
tre. Dopo Selika
(1921, conservato presso la Cineteca
Nazionale) e Il
vetturale del San Gottardo
(conservato sempre presso la Cineteca
Nazionale e presentato
alla Mostra del cinema di
Venezia del 2011), grazie
al Cinema Ritrovato di
Bologna
è stato possibile proporre, in Italia,
Tragico convegno,
un film del 1915 del quale Ivo
Illuminati, nativo di
Ripatransone,
fu regista e protagonista. La presentazione del film, proveniente
direttamente dall'EYE
(come si chiama oggi il Nederlands
Filmmuseum di Amsterdam),
al festival bolognese, è la conferma di quanto pensiamo ormai da
tempo, e cioè che i film di Ivo
Illuminati, introvabili
in Italia,
siano presenti negli archivi delle meritorie cineteche internazionali
che, molto più che da noi, trovano, restaurano e conservano quel
cinema muto anticipatore di una delle poche forme d'arte “universali”
del nostro tempo arido. Fra qualche anno, probabilmente, ci sarà
dato di vedere anche Il
re, le torri e gli alfieri
(tratto da un soggetto di Lucio
D'Ambra), film che la
critica dell'epoca (siamo nel 1917) considerò un capolavoro
assoluto. Ma torniamo alla storia del ritrovamento di Tragico
convegno. Scrive Elif
Rongen. “Nel 1957,
quando la collezione Desmet
venne donata al Nederlands
Filmmuseum, la copia di
distribuzione olandese di Tragico
convegno (o, in olandese,
Maria Pansa het kleine
meisje) non era presente
tra i circa 900 titoli. È riapparsa solo recentemente, in una
collezione privata arrivata al Musuem
nel 2000. I due rulli ritrovati sono in ottime condizioni, ma
purtroppo il finale è mancante e le nostre ricerche in altri archivi
FIAF
non hanno dato risultati. Negli archivi cartacei della Desmet
Collection
abbiamo trovato però dodici fotografie, due manifesti e un flyer
pubblicitario olandese. Il flyer presenta Maria
Jacobini come la 'sorella
di Francesca Bertini,
famosa diva italiana' e offre una dettagliata sinossi di ogni rullo,
includendo anche alcune battute di dialogo. Il restauro del film ha
preservato i materiali esistenti, senza alcun intervento di
duplicazione analogica o di colorazione Desmet.
Tuttavia, poiché il film si interrompe bruscamente, abbiamo deciso
di completarlo con una ricostruzione del finale, utilizzando la
sinossi del terzo rullo contenuta nel flyer e sei fotografie
originali. Il nuovo finale è stato unito alla coda del film con una
giunta provvisoria, in modo da poter essere facilmente sostituita se,
come ci auguriamo, il vero finale prima o poi salterà fuori. Il caso
di Tragico convegno
testimonia l'importanza di aver preservato l'intera collezione
Desmet:
solo ora che, dopo oltre mezzo secolo, la copia e i materiali
cartacei sono stati riuniti, è stato possibile 'completare' il
film”.
Curiosa
la storia della presunta parentela fra Maria
Jacobini e Francesca
Bertini.
Curiosa perché le due “dive”, oltre a non essere sorelle, si
odiavano cordialmente rivendicando, l'una contro l'altra, il ruolo di
prima donna del cinema muto italiano. Maria
Jacobini però, una
sorella l'aveva. Si chiamava Diomira,
anche lei attrice e anche lei, come Maria
e Francesca Bertini,
era stata scoperta da Ivo
Illuminati, l'unico,
vero, originale talent-scout di attrici dell'epoca. Di Tragico
convegno si occupò
naturalmente anche la nascente critica cinematografica. Scrive
Giovanni Lasi.
“In una critica dedicata a Tragico
convegno apparsa sulla
rivista 'La Cinematografia italiana ed Estera', si sottolineano
l'''eleganza', 'il garbo', 'il decoro', caratteristiche che
accomunano gran parte della produzione Celio.
Tra il 1913 e il 1914 la Casa romana può contare su un parterre
di attori straordinari, come Alberto
Collo, Emilio
Ghione,
Francesca Bertini,
Leda Gys,
nonché la protagonista di Tragico
convegno,
Maria Jacobini,
interprete di solida formazione teatrale e, già nel 1915, stella
riconosciuta del cinema italiano. Nell'occasione è affiancata da Ivo
Illuminati,
co-protagonista e regista del film. Dopo la parentesi Celio,
Illuminati
raggiungerà l'apice della carriera nel 1917, dirigendo per la Medusa
Film,
uno dei film più significativi della cinematografia muta italiana,
Il re, le torri e gli
alfieri”.
La
grandezza di Ivo
Illuminati, continua a
essere certificata a ogni scoperta fatta, ovviamente, nelle cineteche
e nelle collezioni estere. Per noi, popolo di smemorati e di
distratti, alla riscoperta di un grande italiano dovrebbe far seguito
almeno un accenno di ictus. E invece nulla. Con la cultura non si
mangia, con il cinema muto si muore direttamente di fame.
Massimo
Consorti
Chi
ha voglia di vedere alcune immagini di Tragico
convegno:
Cinema
ritrovato. Ci sono reperti e reperti...
Quello
che si vede nell'immagine, è un proiettore cinematografico muto,
modello Splendor della Prevost. È datato primi anni '20,
l'avanzamento della pellicola è a mano e i fotogrammi al secondo
sono 16. Al Cinema ritrovato si è visto anche questo, un proiettore
da commozione cinefila pura, con tanto di “camino di scarico” per
l'ossido di carbonio prodotto dai “carboncini” per
l'illuminazione della pellicola: nessun fascio di luce, al cinema, è
stato mai come quello prodotto dai vecchi, indimenticati, elettrodi o
carboncini
(cfr. Nuovo Cinema Paradiso su tutti). Stiamo parlando insomma, non
di un reperto archeologico (come potrebbe sembrare a prima vista), ma
di un vero e proprio proiettore ancora perfettamente funzionante che,
nel corso di una serata di cinema “tenero”, ci ha fatto riprovare
il gusto di guardare i vecchi film muti rispettandone soprattutto il
numero dei fotogrammi al secondo (aspetto niente affatto marginale).
Così, in rigoroso ordine casuale, nella stracolma Piazzetta Pasolini
della Cineteca di Bologna, sono stati proiettati 7 brevi (e
brevissimi) film che vanno dal 1903 al 1907, tutti appartenenti dal
Gaumont Pathé Archives. Il primo, più che brevissimo, è stato
Panorama de Constantine, 2 minuti a 16 fotogrammi al secondo, un
bianco e nero da urlo anche se per, praticamente, una cartolina di
immagini in movimento. Poi sono iniziati i film comici e quelli
drammatici (con tanto di morti truculente), virati e non, qualcuno
dotato di un suo fascino altri meno. Elencarli equivale a mettere in
fila stati d'animo, e lo facciamo esattamente con questo scopo.
Douanier séduit (1907); Les voleurs incendiaires (1907); Trois sous
de poireaux, per la regia di Georges Hatot (1907); Le bagne des
gosses (1907); La Vengeance du clerc du notaire (1906) e il
“fantastico” Les roses magiques, per la regia di Segundo de
Chomón (1906). C'è da dire, che senza questi primi, rudimentali
film girati a macchina unica, molti capolavori del cinema muto non
sarebbero esistiti. Dai lever de rideau ai cortometraggi, gli inizi
del cinema senza voce sono serviti a dettare le regole di tutta la
cinematografia che sarà fino al 1927 quando Il cantante di Jazz
cambierà il mondo.
Il
Cinema ritrovato. Il suono della suspence: Alfred Hitchcock e Bernard
Herrmann “letti” da Timothy Brock
L'uomo
che sapeva troppo,
Psycho,
Intrigo internazionale
e Vertigo:
quattro colonne sonore scritte da Bern
Herrmann per Hitch,
quattro pagine indimenticabili nella storia della musica da film. Il
mini concerto dell'Orchestra
del Teatro Comunale di Bologna,
prima dei fuochi artificiali tatiani sullo schermo, ha rappresentato
la degna conclusione di un Festival che dà alle colonne sonore
(restaurate o eseguite dal vivo) un peso quasi pari a quello delle
immagini. E se a dirigere il concerto viene chiamato Timothy
Brock, che fra tutti è
il maggior esecutore di colonne sonore oggi al mondo, il conto è
presto fatto e il risultato finale si può dare per scontato: un
brivido continuo lungo la schiena (caldo permettendo). Il Cinema
ritrovato aveva già
omaggiato Alfred Hitchcock
riproponendo la versione restaurata di nove pellicole del periodo
muto inglese, ma nella serata finale ha voluto fare e dare di più, e
ha proposto quattro vere e proprie sinfonie da film come forse ci è
capitato di ascoltare solo in Nino
Rota per Federico
Fellini. Strano e intenso
il rapporto fra il regista inglese e il compositore americano. Strano
perché paragonato al cappuccino. “Il latte è il latte e il caffè
è il caffè – dice Gian
Luca Farinelli – ma
insieme, non si sa perché, danno vita al cappuccino che è meglio.”
Priva di ogni riferimento a immagini, l'esecuzione dell'Orchestra
del Teatro Comunale è
esemplare. Chi ha visto i film, riesce perfino a riconoscere le
sequenze e, con un po' di fantasia, a vedersele scorrere davanti agli
occhi. Chi non ci riesce si annoia, rumoreggia, suona le percussioni
fuori dal “recinto” di Piazza Maggiore, indispettisce e irrita
più delle zanzare che evidentemente a Bologna, dalle parti della
Piazza, non ci sono o, se ci sono, pizzicano altrove. Più da
cronisti che da critici (c'è poco da criticare nella perfezione), ci
siamo chiesti cosa sia successo, a un certo punto, sul palco
dell'orchestra. Abbiamo avuto la fortuna di assistere alle esibizioni
di Timothy Brock
in altre circostanze e in altri contesti (sempre con Chaplin
sullo schermo), e sappiamo che il direttore d'orchestra inglese (di
più, di Londra)
è persona affabile, dotata di classe sopraffina, estremamente
disponibile ed educata. Per cui ci siamo sorpresi quando abbiamo
visto Brock
quasi sbattere le partiture sul leggio, non lasciare il palco (per
poi tornarci) fra le esecuzioni di Intrigo
internazionale e Vertigo,
non tornare sulla scena per un ultimo, strameritato applauso. E
sorpresi esattamente come noi, devono essere rimasti i professori
dell'orchestra che lo hanno atteso per qualche minuto; poi, in ordine
sparso, come non accade neppure alla fine delle prove, hanno lasciato
il palcoscenico quasi fuggendo. Non sappiamo la ragione del
comportamento di Timothy
Brock. Non sappiamo, ad
esempio, se gli sparuti applausi in mezzo ai brani eseguiti senza
aspettare la fine, lo abbiano innervosito. Non sappiamo se il
silenzio (mancante) nei momenti di “diminuendo”, lo abbia
maldisposto. Non sappiamo se le percussioni che hanno continuato a
imperversare, pur se in lontananza, per tutta la durata del concerto,
lo abbiano a un certo punto stancato. Quello che è certo, è che il
Timothy Brock
del concerto finale del Cinema
ritrovato non è il
maestro che conosciamo, al quale la famiglia Chaplin
ha affidato il restauro e l'arrangiamento orchestrale delle colonne
sonore dei film di Charlot.
Non è il Timothy Brock
delle riesecuzioni dei film di Carl
Theodor Dreyer.
Non è il “Sir”
famoso nel mondo per la sensibilità maniacale da cinefilo puro. Il
pubblico, freddino in verità, non lo ha certamente aiutato. Chissà,
forse con qualche immagine sullo schermo...
Il
Festival del Cinema ritrovato. Lo ricordate Jacques Tati?
E
chi se lo ricorda, Jacques
Tati? Persi fra quattro
comici d'accatto dalla volgarità direttamente proporzionale alla
loro scempiaggine, spesso dimentichiamo che perfino un film del 1936
e un altro del 1949 possono farci ridere a crepapelle. Non occorre
attraversare l'Oceano a bordo del Titanic
per imbattersi in alternative validissime ai Charlie
Chaplin o ai Buster
Keaton. Basta fare un
salto a Bologna
durante il Cinema
ritrovato, e si rientra
in contatto con un certo Jacques
Tati, francese fin dentro
il midollo ma con una visione della comicità universale, e ci si
rende conto che si può anche ridere di una bicicletta che corre da
sola o di un palo che non ne vuole sapere di star su. Serata finale
del Cinema ritrovato,
Piazza Maggiore strapiena come le sere precedenti. Tocca a Jacques
Tati e a Soigne
ton gauche (Cura
il tuo sinistro - 1936) e
poi ancora a Tati,
stavolta regista e interprete di Jour
de fête (Giorno
di festa – 1949). Nel
primo l'artista è diretto da René
Clément e gioca a fare
il pugile che combatte contro un avversario inesistente nell'aia di
una casa di campagna. Quando gli toccherà salire davvero sul ring,
le situazioni comiche si dipaneranno a una velocità tale che le
risate saranno inevitabili, come forzatamente voluta è la voglia di
non caricare di sovrastrutture lessicali un mediometraggio (13 minuti
la durata) che tutto sommato è solo una comica. Jacques
Tati non è un attore di
cinema. Gira il mondo con la sua compagnia di varietà
(avanspettacolo), che raccoglie successi e fortune. Ma il cinema lo
vuole e lo cerca fino a quando René
Clément, impegnato nella
regia di un altro lavoro, gli cederà il posto per Jour
de fête. Nasce così,
per caso (dice Philippe
Gigot: “Se Clément
fosse stato libero probabilmente il cinema mondiale avrebbe dovuto
fare a meno di uno dei suoi più geniali rappresentanti), l'astro di
Jacques Tati.
Gira il film ambientandolo in campagna e, come a voler continuare lo
scenario di Soigne ton
gauche, ci infila dentro
quasi gli stessi personaggi. Stavolta però il postino (e che
postino!) è lui, François,
l'uomo che di spalle somiglia terribilmente a Charles
De Gaulle. Jour
de fête è del 1949. La
seconda guerra mondiale è finita da poco e la Francia è alla
ricerca spasmodica di una identità perduta. Vincent
Ostria, nella critica al
film, vede addirittura nella difficoltà di innalzare il pennone con
il tricolore il tentativo di riappropriarsi delle radici di un
popolo; e nel film visto per caso, in un baraccone della fiera, sulle
nuove poste americane supermoderne e superfunzionanti, vede il
tentativo francese (di Tati
in questo caso) di battere, per spirito di abnegazione e coraggio,
anche i temerari portalettere statunitensi. Di tutti i film di
Jacques Tati,
Jour de fête
è il più fisico, il più keatoniano,
quello che si avvicina maggiormente agli stilemi da comica
hollywoodiana. Tati
è una forza della natura che, a bordo di una bicicletta che sembra
vivere di vita propria, ne combina di tutti i colori. Che quella di
Tati
sia una comicità ancora estremamente efficace, è messo in risalto
dalle risate della gente in Piazza Maggiore: non uno sganasciamento,
ma poco mancava. Scrive ancora Vincent
Ostria: “Quella che
Tati
mostra è la Francia
del passato, la stessa che il regista-attore contrapporrà
nettamente, in Mon Oncle,
al mondo moderno, duro ed ermetico; un mondo che invaderà tutto lo
spazio in Playtime”.
C'è da aggiungere, a conclusione, che nel caso di Jour
de fête
i francesi hanno rimediato una delle più brutte figure “artistiche”
in cento anni di immagini in movimento. Famosi nel mondo per il
lavoro di recupero e conservazione dei film che ne hanno fatto la
storia cinematografica, stavolta ai francesi è venuto in mente di
colorare digitalmente l'unica copia in bianco e nero in circolazione.
Inutile dire che il lavoro di ripristino dell'opera originale di
Tati,
è stato difficilissimo e ottenuto solo grazie alla presenza, negli
Archives
Françaises,
di un controtipo su nitrato d'argento. Ahi ahi ahi madame la France!
Festival
del Cinema ritrovato. Hiroshima mon amour 54 anni dopo: se Marguerite
Duras...
Guai
a parlar male dei “miti”, si corre il rischio di prendersi una
pallottola in pieno petto. Il fatto è che non si stava parlando male
di Hiroshima mon amour (operazione impossibile e un po' da
mentecatti), la riflessione riguardava piuttosto il taglio che
Marguerite Duras, nel ruolo di sceneggiatrice, da al monologo tutto
al femminile, lungo 92 minuti, che caratterizza il film di Alain
Resnais e l'interpretazione ancora oggi stupefacente di Emmanuelle
Riva. Come tutti coloro che amano il cinema ormai sanno, Hiroshima
mon amour è una di quelle classiche pellicole che si presta alle
interpretazioni più fantasiose. Spesso qualcuno ne coglie il senso
profondo e ne offre una lettura aderente al lavoro. In altre
occasioni, invece, si tende a diventare tutti psicanalisti e critici
cinematografici, e gli effetti sono devastanti. La prima volta che
vedemmo Hiroshima mon amour fu al circolo Arci di Urbino, una tombola
di anni fa. All'uscita, piuttosto che raccontarci dell'impossibilità
dell'unione e della pienezza di sé, della vittoria della
segmentazione, del frammentario e della dissociazione di quello che
era stato lo splendido gioco di specchi di Resnais, ci lasciammo
andare a un corteo spontaneo, la cui parola d'ordine era “USA
boia”. Più tardi, non di molto, ci soffermammo sulla tecnica del
montaggio discontinuo, sulla differenza d'impostazione dei due
direttori della fotografia (Sacha Vierny e Michio Takashi), della
diversità profonda dei narrati francese e giapponese ma,
soprattutto, “sul senso quasi borgesiano dell'impossibilità di
essere uno perché viviamo nell'istante, e ogni istante ci condanna
alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi” (Jean
Douchet). Terminata la proiezione, con ancora negli occhi un altro
splendido restauro curato dalla Cineteca di Bologna diretto da Renato
Berta, ci stavamo soffermando sulla ripetitività della struttura
narrativa curata dalla Duras, quando uno spettatore con qualche anno
più di noi sulle spalle, si è infilato in una discussione sulla
“anti-retorica” di Resnais quando a nessuno era venuto in mente
di citarla. “La colpa è dei sottotitoli italiani – ci ha detto
rimproverandoci – e della voce troppo teatrale di Andreina
Pagnani”, che della Riva è stata la doppiatrice nella edizione
italiana. Peccato che la voce della Riva di questa sera, fosse quella
originale (il film è sottotitolato) e che nessuno si è sognato di
dare del “retorico” a Resnais né tantomeno a Marguerite Duras.
Il problema, in fondo, è sempre quello. Oggi di cinema parlano
tutti, ma proprio tutti, qualcuno si spinge oltre e si avventura in
disquisizioni analitiche senza alcuna via d'uscita. Far tesoro del
dono del silenzio mai. Ora sappiamo a chi indirizzare quella famosa
pallottola in pieno petto.
Il
Festival del Cinema ritrovato. Il giorno di Agnès Varda e di La
Pointe-Courte
Eccola
di fronte a noi. Ancora più piccola di quanto immaginavamo. Gian
Luca Farinelli dice
semplicemente “Agnès
Varda” e il pubblico si
spella le mani. La
Pointe-Courte è il primo
film della regista franco-belga, datato 1954 (uscito nel 1956).
Dicono che rappresenti un accenno (magari inconsapevole) alla
Nouvelle Vague
che esploderà di lì a breve. Madame Varda
dice, spiazzando tutti: “Non so cosa rappresenti questo film per la
storia del cinema francese. Quello che so è che l'ho girato
esattamente come volevo che fosse”. André
Bazin scriverà: “La
storia che ci racconta Agnès
Varda è la più semplice
del mondo, è una storia d'amore. Un uomo e una donna sono sul punto
di separarsi dopo quattro anni di convivenza. L'uomo trascorre le
vacanze nel suo villaggio natio, un borgo di pescatori che si chiama
Pointe-Courte.
La donna lo raggiunge per annunciargli la separazione definitiva,
ma...”. Sulla scia della filosofia neorealista, Agnès
Varda sceglie gli
abitanti del luogo come attori, ad esclusione dei due protagonisti.
Lei è Silvia Monfort,
attrice non troppo affermata, ma già vista al cinema. Lui si chiama
Philippe Noiret
ed è al suo esordio davanti alla cinepresa. Fino a quel momento,
tanto teatro. La storia d'amore dei due finisce inevitabilmente per
intrecciarsi con la vita di tutti i giorni di un borgo di pescatori
costretti a sbarcare il lunario pescando a strascico molluschi
inquinati. E nelle ore di svolgimento della storia accade di tutto,
compresa la visita di due solerti funzionari dell'ufficio d'igiene,
la morte di un bambino, i primi passi dell'innamoramento di due
ragazzi destinati a un probabile matrimonio. Il bianco e nero della
pellicola è folgorante. Il restauro compiuto dalla Cineteca
di Bologna sotto
la supervisione della stessa Agnès
Varda, è perfetto, senza
una sfumatura fuori contesto, anche se a volte ci è capitato di
notare come le tonalità dei grigi tendano a scomparire. Poi la
recitazione: alla Dreyer
(Carl Theodor)
o alla Antonioni
(Michelangelo),
volti sovrapposti e sguardi apparentemente persi nel vuoto. Dialoghi
lenti, sempre pacati, nulla a che vedere con la nuova commedia
francese, piuttosto una rivisitazione di Clément
(René)
o dell'altro René
(Clair).
Qualche incertezza di movimento di camera, ma che si può pretendere?
È un'opera prima e non ci sono carrellate hitchcockiane. In compenso
c'è, in fieri,
tutta Agnès Varda,
quella di Loin du Vietnam
e di Sans toit ni loi.
C'è la Varda
dei rapporti umani complessi con sullo sfondo le vicissitudini della
quotidianità pesante degli anni '50, divisa fra povertà e voglia di
affrancamento. Eccola davanti a noi, la piccola, coraggiosa,
esemplare Agnès Varda:
un pezzo di storia di cinema francese, un pezzo di storia del cinema
per chi ama capire.
Bologna.
Il Cinema ritrovato. A
Piazza Maggiore “I proscritti” di Sjöström:
un capolavoro datato 1918
Il
fatto è che non ci scappa il termine “capolavoro” per un film da
una decina d'anni, e l'ultima volta che lo abbiamo fatto ce la siamo
dimenticata: non era evidentemente un capolavoro. Diverso,
totalmente, il discorso del secondo film di Viktor
Sjöström
(il primo fu Terje Vigen
del 1917), un grandissimo
regista svedese uscito come nuovo da una operazione di restauro degna
della massima lode. Berg-Ejvind
och hans hustru, tradotto
in italiano in I
proscritti, figura
ancora, con buona pace di Ingmar
Bergman, al primo posto
dei film più costosi della storia del cinema svedese, e lo si
capisce vedendolo. Girato in condizioni estreme nel nord della
Svezia,
I proscritti
narra “la storia Ejvind
(lo stesso Sjöström),
un uomo in fuga dal passato e costretto a rifugiarsi sulle montagne
con Halla,
la donna amata, interpretata da Edith
Erastoff che era, anche
nella vita, la moglie del regista-protagonista”. Il fondo etico,
chiamiamola la “morale” del film, consiste nel principio che sono
la povertà e l'indifferenza, e non una qualità intrinseca del bene
e del male, a fare di un uomo un fuorilegge. E che a dividere gli
uomini, fino all'odio, in fondo sono la fame e la disperazione. Che
scenari, quelli ripresi da Julius
Jaezon che dei Proscritti
è il direttore della fotografia! E che spettacolarità le scene alle
quali la colorazione a mano (il tinting
and toning del montaggio
– quella che oggi chiameremmo post-produzione) regala quel sapore
agro-dolce del dramma, e di una storia d'amore fortissima ed
esclusiva, che avrà il suo epilogo in una notte di tempesta di neve,
con un abbraccio mortale finale da lasciare senza fiato. C'è da dire
che, se volessimo approfondire alcuni aspetti tecnici, non potremmo
fare a meno di non notare come la colorazione a mano, classica dei
film dell'epoca “muta”, lontana dal rappresentare un escamotage
per attrarre il pubblico con bassi tentativi manipolatori,
rappresenta le diverse situazioni narrative sviluppate nel plot. Il
passaggio dall'azzurro al rosso, dalle tonalità di grigio al bianco
e nero totale, insieme alla musica, contribuiscono ad accentuare (non
di poco) la drammaticità (o la spettacolarità) delle diverse
sequenze. Inoltre c'è da aggiungere come, in almeno un paio di
passaggi, si abbozzi un rudimentale tentativo di campo-controcampo
(siamo nel 1918, è bene ricordarlo) e si assista a esibizioni dello
stesso Sjöström
che denota un'abilità pari quasi a quella del Sylvester
Stallone
di Cliffhanger.
Tutto intorno, ricostruzioni maniacali di contesti e un paesaggio
lunare da sbalordimento. Il lavoro sapiente di restauro del film da
parte dello Svenska
Filminstitute, ha
riportato alla luce il capolavoro di Sjöström
così come il regista lo aveva concepito. Ha restituito la
colorazione originale e perfino lo stesso formato dell'epoca, quel
full-frame
senza il quale le scene avrebbero perso molta della loro
spettacolarità.
Berg-Ejvind och hans hustru ci
ha commosso, stupito, emozionato. Parlare in questi termini di un
film muto potrebbe sembrare fuori luogo, ma lo è solo per chi
intende la gloriosa stagione del cinema
senza parola come la
parodistica
visione delle comiche
a poco prezzo (sicuramente non quelle di Charlie
Chaplin e di Buster
Keaton). Il cinema muto
ha dalla sua la possibilità unica di mostrare volti ed espressioni,
ghigni e lacrime, risate e occhi languidi. Il cinema muto ha in sé
la forza di un meta-linguaggio che sfonda ogni barriera idiomatica
per approdare all'immaginifico di situazioni reali ma finte, surreali
quanto grottesche, quasi sempre coinvolgenti. Se al capolavoro (è la
terza volta che usiamo questo termine) di Viktor
Sjöström,
aggiungiamo la prima mondiale (proprio così, a Bologna)
della colonna sonora appositamente commissionata al Matti
Bye Ensemble,
che nobilita ogni passaggio dell'opera, si può tranquillamente
affermare che lì dove non possono le immagini, subentra la musica,
ed è vibrazione continua. Una citazione, quindi, merita anche il
Matti Bye Ensemb
e, tanto per imitare colleghi che parlano di cinema e dei cast come
fossero le formazioni delle squadre di calcio, desideriamo ricordare
i musicisti che hanno reso con la loro musica, una normale serata in
una notte piena di stelle. Matti
Bye, leader
dell'ensemble, è il pianista; Kristian
Holmgren,
il percussionista (con tanto di tubular
bells alla
maniera di Mike
Oldfield); Leo
Svensson, il
contrabbassista; Nils
Berg, flauto, clarinetto
e violino (aggiungiamo la sega suonata con l'archetto); infine Lotta
Johansson, violinista di
rara incisività pur in assenza di virtuosismi. Se c'è una
considerazione da fare al termine di una serata illuminata dalle
stelle (non solo in cielo), è che il Cinema
ritrovato è uno dei
pochi festival al mondo che consente di nominare la parola “cinema”
senza provare un po' di vergogna.
Teatri
Invisibili 2012. La tenerezza tutta al femminile di Marta Cuscunà
Ne
ho avuto la conferma. Ci sono donne che fanno amare le donne e ci
sono donne che le fanno odiare...le donne. Non si capisce per quale
ragione le seconde stiano prendendo il sopravvento sulle prime, forse
vale la logica della virilizzazione o forse, più terra terra,
l’incapacità di essere donne sentendocisi. Il femminismo per
niente d’accatto di Marta Cuscunà parte da lontano, addirittura
dal Cinquecento e mica da una corte “illuminata”, semplicemente
da un convento, il Santa Chiara di Udine. Le Clarisse, si sa, hanno
una marcia in più e, fedeli all’icona della loro fondatrice, una
qualità che altri ordini di suore non hanno: la femminilità. Accade
così che da un corpo esile come quello di Marta Cuscunà, fuoriesca
una potenza drammaturgica che mi ha piacevolmente colpito e, per
molti versi, ammirato. Dello spettacolo della giovanissima attrice di
Monfalcone salvo tutto anzi, l’ho trovato degnissimo anche nella
parte narrata, quella che alcuni spettatori hanno trovato “noiosa”
e che invece a me è sembrata “indispensabile”. Credo sia inutile
citare narratori ben più famosi di Marta Cuscunà, ma sembra che il
Nord-Est, oltre ai mali politici ormai endemici che lo affliggono,
riesca a proporre personaggi di una levatura straordinaria. Così,
con una voce che ne diventa otto (compresa la sua originale), una
padronanza pressoché assoluta nell’uso dei puppets (preferisco il
termine anglosassone a “marionette”), lo spettacolo si slarga in
una marea di considerazioni sul ruolo della donna che alla fine non
può non farcele amare. Che le donne siano più sensibili, acute,
argute, disponibili degli uomini, credo sia un fatto oggettivo ma, da
quando è venuto fuori che una ricerca scientifica le ha definite più
intelligenti, del loro universo fantastico non mi sorprende più
nulla. Buon esordio, per me, ai Teatri Invisibili 2012, una
manifestazione che seguo ormai da anni e che da anni non smette mai
di sorprendermi piacevolmente
Il
buio e oltre ancora. L'ultima replica all'Aikot27
Stavolta
il compito è facile. Non commento il testo. L’ho scritto io. Ci
mancherebbe... Però trovo interessante, da vecchio e smaliziato
critico teatrale, provare a recensire un monologo scritto dallo
stesso critico che, credo caso unico nella storia del teatro (a meno
di improbabili pseudonimi), potrebbe divertirsi parecchio a
stroncarsi. Ma non mi odio fino a questo punto. Per cui mi divertirò
a parlare di chi il mio testo lo ha messo in scena: Vincenzo Di
Bonaventura, attore solista. L’ambientazione è l’America del
profondo sud, nel 1962. Razzismo acclarato e non strisciante,
bacchettonismo all’eccesso, privazione di qualsiasi forma di
convivenza civile, monoreligiosità, iperrepressione sessuale.
Vincenzo di Bonaventura interpreta, nell’ordine, Jonathan Wilson,
l’avvocato; Abraham Wistley, il negro; Jeremy Wilson, il padre di
Jonathan; e Il Buio. L’attore è uno e interpreta i cinque
personaggi, con un’abilità nell’intonarne le voci che fa il paio
con la dimestichezza nell’affrontare cinque caratteri di cinque
personalità diverse. Di Bonaventura parte lento, con un vecchio
spiritual che, pur non contemplato nel testo originale, meglio di
ogni altro trucco scenico disegna immediatamente il contesto. Allo
scorrere lineare del testo, preferisce la variazione per flashback e,
specie all’inizio, il suo raccontare scene apparentemente senza
nesso può causare qualche smarrimento. Ma è solo un momento, perché
poi la storia si dipana logicamente,e l’orrendo delitto di cui il
nero Abraham Wistley è accusato (lo stupro di una giovane ragazza
bianca) si rivela per quello che è: un’accusa infondata a sfondo
razzista. Vincenzo Di Bonaventura fa vibrare corde drammatiche come
pochi. La sua voce monologante alterna insulti e sospiri, prese
d’atto e prese di coscienza fino al senso totale di impotenza che
la coglie nel momento in cui si rende conto che nulla potrà fare per
cambiare una storia dal finale segnato. L’abilità dell’attore
consiste nel dare alla storia quel ritmo incalzante che la voce
scandisce, nel porsi sulla scena padroneggiandola anche con il
manichino nero che gli fa da partner nella povertà voluta di un
palcoscenico su cui campeggia solo una poltrona che raccoglie parole.
Ci sono attimi da brivido e momenti di una emozione che nessuna
lettura potrà mai far provare a uno spettatore che ascolti “Il
buio e oltre ancora” come una storia narrata da un nonno davanti al
camino dell’inverno. E vibrano ancora le corde di un cuore che,
alla fine, delle battaglie civili e del rispetto per l’altro ha
fatto la propria ragione di vita. Il monologo termina con lo
spiritual con il quale è iniziato e il passo lento di un attore che,
in un’ora di spettacolo, ha raccontato in maniera impagabile cosa
significa fare i conti con la propria coscienza.
Il
senso della estiva cultura alta: sveglia al collo, anello al naso.
Sì, buana.
Anche
questa sera ho avuto la sgradevole impressione di essere considerato
un nativo con la sveglia al collo, l’anello al naso, le spalle
curve a dire: “Si buana”. Non avrebbe senso altrimenti l’aver
assistito, per sere e sere, a performance discutibili, organizzate da
soggetti discutibili, con personaggi al limite dell’accoglienza a
base di eduardiane, liberatorie pernacchie, con allestimenti al
limite del dilettantismo da olimpiadi decoubertiniane e il solito
intervento di colleghi accondiscendenti che scrivono: “Trattasi di
alta operazione culturale”. Di quale cultura si parli ovviamente è
inutile chieder conto, il problema è che si continuano ad osannare
poeti che poeti non sono, scrittori che scrittori non sono, ex
personaggi di un tempo che fu, malinconicamente sul viale del
tramonto, avventurieri dello spettacolo provenienti tutti,
rigorosamente, da Roma. Perché da queste parti se non vieni da Roma
non sei nessuno e fanculo al pedigree. Capita quindi, che tre
attrezzi dell’archeologia spettacolistica come Gianni Togni, Rita
Dalla Chiesa e Franco Miseria si ritrovino l’intera città (e le
immediate vicinanze) ai piedi proponendo una delle peggiori
operazioni culturali degli ultimi 150 anni, denominata superbamente
MEF (Musical European Festival) che dio li accolga presto fra le sua
calde braccia perché non se ne può più. L’operazione di questa
sera è al limite del comico. E non perché lo siano le stupende
fiabe raccolte e adattate da Antonio De Signoribus, quanto per il
contorno fintamente “Greenwich Village”, musica sperimentalmente
disastrosa, un maledetto faro destinato a illuminare solo la chioma
dei capelli della signora Gravina, ma che, sbattendomi contro la
faccia, si è infilato dritto negli occhi. A un certo punto, pur di
non perdere i particolari di una serata che pensavo si basasse su
altre corde e ritmi, ho indossato gli occhiali da sole. Li ho tolti
dopo che il terzo amico, passando, mi ha fatto la stessa domanda dei
due che lo avevano preceduto: “Ma che c’hai la congiuntivite?”.
Arrivando in Palazzina Azzurra a spettacolo iniziato, ho sentito da
lontano la voce recitante le fiabe di De Signoribus, e mi sono detto:
“Ma che ci fa qua Lina Sotis?”. A un certo punto mi è sembrato
di sentire anche la voce di Geppi Cucciari, allora mi sono detto che
forse avevo letto male le locandine. Invece no, era proprio Vanessa
Gravina che, come tutti sanno, non ha alle spalle grandi performance
cinematografiche né teatrali ma che il pubblico conosce come
interprete di due fiction-pietre miliari della storia della
televisione italiana: “Sospetti”, con “grandhotel” Sebastiano
Somma e “Butta la luna” che aveva fra le protagoniste principali
la pluricandidata all’Oscar Fiona May, proprio quella del salto in
lungo. Precedentemente, la signora Gravina era stata nel cast de “La
Piovra” e aveva dato il meglio di sé, interpretando la miniserie
“Don Tonino”, con quel mostro antitetico della comicità che
risponde al nome di Andrea Roncato. Dotata di una voce monotonica,
Vanessa Gravina mi ha colpito per l’impegno profuso nel pronunciare
perfettamente i termini e mettere quindi tutti nelle condizioni di
comprenderli. Così facendo ha però tolto alle parole ogni possibile
emozione. Ed è stata tanta la sua enfasi didattica, che si è spinta
a sillabare perfino le ultime parole di un periodo, come e meglio
della grande Paola Borboni nelle sue indimenticabili serate
post-alcooliche. Lo confesso. Me ne sono andato. Non ce l’ho fatta
ad aspettare la fine. Questa volta il sacro fuoco degli artisti della
Capitale non mi ha neppure scaldato. Loro che di are dovrebbero
intendersene, sono rimasti solo gli eredi del Ponentino ma senza
Trovajoli.
Lito
Fontana. Il “trombone destro” di Dio
Ce
ne sono di musicisti bravi al mondo. A volte capitano anche da queste
parti e quando lo fanno, come Lito Fontana che da queste parti c’è
nato, non amano travestirsi né da Mozart né da Pat Metheny né da
improbabili jazz man: fanno finta di telefonare al loro amico
ristoratore per dirgli di tenere in caldo gli spaghetti con le
vongole, finito il concerto arriveranno. Così, fra festival pseudo
Jazz (quando arriverà il Pat ne noantri oltre Tronto, sarà tutta da
ridere), aspiranti divi pop, rockstar in fieri e in pectore, ogni
tanto succede di imbattersi in un genio perché Lito, fra i cinque
migliori “ottonisti” del mondo e primo nella sua categoria, un
genio lo è davvero. Lui il trombone mica lo suona, lo addomestica
costringendolo a fare quello che gli passa per la testa. E se vuole
smontarlo, perché dai pezzi singoli esca fuori comunque musica lo
fa, alla faccia di quell’ultraquarantenne sempre adolescente che
più che un mago del pianoforte è un accorto esperto di marketting
(non è un refuso, tranquilli correttori!). Ma dicevo di Lito.
Anteprima quasi assoluta del suo nuovo lavoro, “When I Walk Alone”,
destinato a una tournée mondiale, del quale i fortunati
sambenedettesi di ieri sera hanno avuto un sostanzioso assaggio. Il
brano che da il titolo all’album l’ho trovato emotivamente
devastante, con quel diavolo di trombone che svaria su toni e svisate
come fosse la cara vecchia cornetta di Louis, con in più una
dolcezza che scende lenta come il “caffè del marinaio” che
scalda le viscere dopo un sorso. I tre movimenti di Bert Apermatt
(Green, Yellow, Red) “E che è un semaforo?”, dice Lito
sghignazzando, sono bellissime contaminazioni classico-jazz proprio
come quegli altri tre di Elisabeth Raum. Poi, sempre lui, il maestro
Fontana, accompagnato al pianoforte da un altro eccezionale solista
che si chiama Fausto Quintabà, dice fra il serio e il faceto:
“Sapete, questo pezzo è stato scritto per la tromba”, e giù una
cascata di note che non penseresti mai un trombone riuscisse a tirare
fuori. Un po’ sornione, un po’ consapevole padrone della scena,
ripete che lui è un trombone (“ma non in quel senso”), e questa
cosa gliela perdoniamo perché alla fine, imbracciato il bombardino,
si mette addirittura a suonare Il Barbiere di Siviglia di un altro
marchigiano doc, quel Gioacchino Rossini “titolare” del
conservatorio nel quale Lito Fontana si è diplomato. Ascoltare uno
strumento molto particolare, abituato all’um-papà um-papà,
suonato in quel modo, mi ha fatto pensare che se ci fosse stato in
platea il “bombardino” di una qualsiasi banda musicale, tornato a
casa lo avrebbe preso a martellate. Che dire, concerto straordinario
e un duo difficile da dimenticare. In attesa del Pat che, ovviamente,
ci farà dimenticare che la musica è un’arte.
Gli Amanita all'Eau de Vie. Una serata a troppe voci dispari.
Carlo
Cimino, Raul Gagliardi e Maurizio Mirabelli sono tre giovani
musicisti calabresi che compongono gli “Amanita”, un gruppo Jazz
che ripercorre e approfondisce alcune caratteristiche
dinamico-musicali dei trii contrabbasso-batteria-chitarra. Dotati di
buona tecnica musicale, secondo noi stanno ancora andando alla
ricerca di una loro identità, o sound, come si direbbe delle band
più affermate che lo hanno trovato. Non è un'operazione semplice,
anzi. Forse è la scommessa vera di molti dei gruppi Jazz della new
generation, quella di cercare una propria via di analisi, e poi di
sintesi, che non ripercorra canoni già collaudati, con più o meno
successo, da altri. C'è da dire che lo sforzo sembrerebbe premiare
gli Amanita, ma un solo lavoro sulle spalle è ancora troppo poco per
lasciarsi andare a considerazioni altre (e alte). Avendo frequentato
per un po' di tempo uno strumento come la chitarra, ci riuscirebbe,
ad esempio, difficile non essere contaminati da chitarristi non solo
Jazz (e il caso Pat Metheny ci starebbe tutto) ma anche blues e rock.
Il rischio della chitarra, tutto sommato, è proprio questo, non
riuscire a staccarsi da modelli. Di Raul Gagliardi abbiamo apprezzato
la pulizia dello strumento, un fare quasi a meno di sonorità
artefatte, per inseguire il suono delle corde così com'è quando
esce da un amplificatore. Di Maurizio Mirabelli, terribile l'acustica
del locale per la batteria, un ritmo tenuto sempre sostenuto, pur
senza grandi slanci di fantasia. Ci ha colpito positivamente Carlo
Cimino, un contrabbasso potente e maturo, in grado di fare anche da
controcanto alla chitarra. Gli Amanita, abbisognano di un ulteriore
ascolto, troppi “vizi” di forma questa sera, per dare un giudizio
che non risenta dell'ambiente, delle voci, della ristrettezza degli
spazi, dell'incapacità della musica di uscir fuori senza
“distorsioni” esterne. Una delle ragioni per le quali terminammo
la nostra breve carriera di musicisti, fu quella che trovavamo quasi
un vilipendio alla seconda arte, il rumoreggiare di piatti e
bicchieri, il viavai dei camerieri, le risate e le battute a voce
alta della gente. Non sappiamo perché, pur facendo solo un misero
rhythm and blues, sentire ridere voci stentoree e fuori tono, ci
faceva incazzare da morire. Quello che ci sorprende positivamente,
dei musicisti delle nuove generazioni, è un limite di tolleranza
altissimo che gli permette di esibirsi dovunque e con qualsiasi
sottofondo. Il ristorantino Eau de vie, è sicuramente un luogo molto
piacevole per una cena, magari in coppia. La bravura dello chef
Nazzareno Spazzafumo, considerato lo sguardo soddisfatto dei clienti,
è stata di una evidenza lapalissina. Una bottiglia di birra
artigianale, Viola Bionda, per la precisione, ha fatto la nostra
personale felicità. Gli ingredienti per una rilassante serata di
Jazz c'erano tutti. Peccato mancasse la possibilità di ascoltarlo...
il Jazz.
Gegè Munari al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno. Una serata di grande Jazz... Anni '70
Iniziamo a sgomberare domande che potrebbero venir fuori leggendo con fare ambiguo, e malizioso, il titolo. Gegè Munari e il suo gruppo sono fior di professionisti. Discuterne le qualità tecnico-musicali sarebbe come offendere la musica e, in questo caso il Jazz. Sono bravi; il fatto è indiscutibile. La fregatura è che da una decina d'anni a questa parte, volenti o nolenti ci siamo abituati a un altro tipo di Jazz. Lo definiamo più fantasioso? Più armonico? Più contaminato? Ecco, tutto ciò cozza, ma non fino ad annullarsi, con il concerto di questa sera, ascoltato per altro con PiGi Camaioni, un altro musicofilo un po' a modo suo del nostro Web Magazine. È lui che ci fa notare, a inizio di Will You Still Be Nine: “Un po' rigido questo schema, vero?” È stato allora che abbiamo iniziato a prendere appunti e lo schema che è venuto fuori, rigido quasi quanto una Sura, è stato il seguente: tromba, sax tenore, pianoforte, pianoforte, sax tenore, tromba. Che è un po' come compiere sempre lo stesso viaggio di andata e ritorno, insomma, roba da pendolari. Il pianoforte, eccezion fatta per gli assoli e le improvvisazioni (molto poco improvvisate, tanto che siamo convinti siano le stesse a ogni concerto), è la base armonica del gruppo, accordi e riempitura. Il contrabbasso e la batteria configurano, insieme, una base ritmica estremamente raffinata ma quasi mai poderosa. Sax e tromba sono le melodie ma, uno strumento alla volta per carità, un duetto o un fraseggio avrebbe sicuramente rovinato uno schema matematico pressoché perfetto. Ed è arrivata una bossa nova, nel caso specifico Ceora. È stato a questo punto che PiGi ha inaugurato il suo repertorio tutto basato sull'avanspettacolo (ragioni evidenti di età), iniziando a vedere sulla scena Delia Scala, Nicola Arigliano, Bruno Martino e noi, un po' più cinematografari, Alberto Sordi che balla da solo, ubriaco, nel salone del Ritz di Montecarlo. Ma è stato solo uno sfruculiamento momentaneo, subito interrotto dall'esecuzione di Airegin e, soprattutto di Lady Barbara (probabilmente Bush) che ha swingato un po' la serata. Finita la prima parte, non andando fortunatamente a vapore ma apprezzando ancora il profumo e il sapore del tabacco vero, siamo usciti a fumare una sigaretta nella speranza che la seconda parte ci consegnasse del Jazz un po' più attuale. In effetti, abbiamo assistito a belle prove “sole” ma maledettamente legate allo schema scientifico di cui abbiamo già parlato. La sensazione finale, a parte due slow, un mezzo swing e Ceora, è stata quella di aver ascoltato per due ore la stessa canzone. Fino a poco più di dieci anni fa, il Jazz in Italia era questo, e chi si permetteva di andare oltre, veniva tacciato di sacrilegio. Ora non è più così e, mentre abbiamo visto gli spettatori di una certa età tiptare entusiasti al ritmo sincopato di Gegè Munari, i più giovani hanno decisamente stentato a seguire il filo di una musica che, a un certo punto, somigliava tristemente a se stessa. C'è da dire che, andati al Break Live per ascoltare Gegè Munari, alla fine abbiamo scoperto Marco Ferri, un sassofonista straordinariamente bravo che ci piacerebbe ascoltare in un contesto un po' più musicalmente anarchico. Però possiamo assicurarvi, che da già da solo valeva il prezzo del biglietto. Più frenato e anche meno tecnico, Francesco Lento, la tromba della band. Onesto e ligio al suo ruolo Vincenzo Florio al contrabbasso, mentre Domenico Sanna al pianoforte, solo in alcuni momenti è riuscito a evidenziare le doti che indubbiamente possiede. Di Gegè Munari non si può dire nulla di negativo. È uno dei padri del Jazz italiano, nel 1968 era già il batterista della mitica orchestra della Rai, ha il sincopato nel sangue, una straordinaria abilità nel destreggiarsi con le bacchette e le spazzole, un ritmo naturale che gli consente di non sbagliare un colpo. Ma è fermo al tempo che fu e non possiamo certamente chiedergli di essere quello che non è. Nota di merito, assolutamente dovuta, al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno, l'associazione che non più tardi di giovedì scorso ha ospitato Enrico Rava. Chi vuole ascoltare il Jazz con il pedigree deve rivolgersi a loro. Per chi ama un altro tipo di Jazz, le occasioni dalle nostre parti, non mancano.
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