Translate

Recensioni


Ciao Federico. La mostra-omaggio di Giuseppe Di Caro a Fellini e al cinema italiano

Quello esposto è il cinema italiano “nobile”, le pellicole con la griffe di Federico Fellini, Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Alberto Sordi e Carlo Lizzani. Cinema indimenticabile, il nostro, che prima di Checco Zalone e Alessandro Siani, aveva sempre qualcosa da dire e immagini incancellabili da mostrare. Ma così è la vita, e si trova sempre qualche critico pronto a certificare che le scemenze sono il futuro. 
Il vernissage di Giuseppe Di Caro (uno dei reporter ufficiali del David di Donatello), nei locali della meritoria associazione culturale “Artes & Co” di San Benedetto del Tronto, è coerente con quelli “romani” degli anni Sessanta e Settanta: presentazione dell'evento all'ingresso, musica dal vivo che parte al taglio simbolico e virtuale del nastro, primi “oh” alla visione delle opere esposte, cameriere che gira con un elegante vassoio al posto del solito, scontato e poco dignitoso (considerati gli assalti) tavolo del buffet.
E se la colonna sonora d'ingresso è quella di “Amarcord”, non ci vuole molto per capire chi, e come, si sta festeggiando. Pur essendo stata scritta nel 1973, la musica di Nino Rota resta quel capolavoro che il tempo, come per il buon vino, colora di magico. E prima ancora di vedere le fotografie della mostra di Di Caro, davanti agli occhi ci scorrono le immagini di Titta e della Gradisca, della neve che cade su Rimini, di “Voglio una donna”, l'urlo di zio Teo-Ciccio Ingrassia sull'albero della gita domenicale della famiglia di Aurelio. A “Amarcord”, Peppe Di Caro dedica anche un angolo della mostra, con tanto di sfere colorate coi volti dei personaggi che spiccano in una dimensione 3D, e una curiosa lettera di Fellini che chiede a Rinaldo Geleng di pensare alla locandina del film, disegnata poi dall'americano John Alcorn. Tutta la mostra è giocata sul filo del ricordo, di scatti figli di un'epoca paragonabile all'età dell'oro della nostra cinematografia, con i personaggi che ne hanno fatto l'orgoglio e che, come avrebbe detto un giorno Dino Risi: “Sono morti tutti, Marcello, Federico, Giuseppe, Ugo, Vittorio, non ho più nessuno con cui parlare”.
Il merito della mostra di Di Caro è quello di tenere acceso il “fuoco” della grandezza e di ricordarci che Federico Fellini è oggi più amato dagli americani che dagli italiani. Il 31 ottobre saranno venti anni da quando Fellini è morto inseguendo Giulietta. Non sono previste grandi celebrazioni né riti di Stato né corone d'alloro al monumento del Milite Ignoto, anche se il regista romagnolo un “milite” lo è stato sicuramente ma non ignoto. Si potrebbe dire che vale, per il cinema italiano, l'epitaffio che Dino Risi avrebbe voluto per la sua tomba: “Nato a Milano, morto a Waterloo”.  


Luca Farina al Salone Sartarelli. La mostra dell'Angelo dai mille volti

Scrive Alessandra Morelli sulla cartolina che accompagna la “piccola” esposizione di Luca Farina: “Il legno come supporto epidermico e levigato. La carta come fibra e trama tattile dell'immagine fotografica. Il colore come contaminazione sciamanica e rivelazione. Il senso della materia è completo e mobile. È un equilibrio vibrante di spinte e reazioni di bellezza alchemica e concettuale. L'artista punta lo sguardo e poi schiude col corpo la sua prospettiva di compasso, aperta, circolare, protagonista nell'opera come le linee, le colle, le polveri”. La “piccola” mostra di Luca Farina ha una location inusuale: il salone di una parrucchieria, la Sartarelli di via Laberinto. Per la cronaca, una delle vie più vecchie di San Benedetto del Tronto, la via dei marinai e dei pescatori, con le case basse, piccole, un piano-una stanza, una appoggiata all'altra per risparmiare un muro e per dare il senso di una collettività solidale unita, nel bene e nel male nella festa e nei lutti, dal mare. Non c'è neppure una locandina che segnali l'evento. Però basta dare un'occhiata dentro, attraverso i riflessi della vetrina, per vedere le opere di Luca Farina sistemate negli spazi disponibili. E allora pensiamo: ecco l'arte che va da Maometto. E se all'inizio può sembrare una battuta, poi non lo è più perché mai come in questi tempi bui, l'arte non esaltata dai mercanti ha bisogno di visibilità, non di stampa patinata che la tratti su riviste costosissime e inutili, ma di essere vista, di trovarsela davanti, meritevole di essere capita: apprezzata è un altro discorso. Luca Farina, lo ammette lui stesso, non ha inventato nulla. Parte da una immagine fotografica e la sviluppa. Poi però ci si sofferma sui supporti e ci si rende conto di quanta esperienza, professionalità e amore per i materiali poveri (il legno su tutti) ci siano nel lavoro di un artista giovane e molto sognatore. Luca spiega processi, racconta del colore che cola sulla carta (“quella pesante dei manifesti perché la carta normale non sopporterebbe né acqua né colla”) e cerca di raccontare le storie che disegna sullo sfondo di una musa che si trasforma di volta in volta, in santa e prostituta, uomo e donna, essere terreno o personaggio sovrannaturale. E il sovrannaturale ha il suo peso. Nella produzione artistica di Luca Farina, il trascendente è lì che ti tende la mano per portarti in paesaggi innevati o nella struttura architettonica rigida di un complesso industriale. Il tentativo è quello di far capire che il mondo non si ferma allo sguardo pur attento di un osservatore, ma va oltre, orizzonti compresi. Ci sono anche i telai di legno vecchio, diremmo antico, che nascondono le opere-reliquie che venivano mostrate ai fedeli il tempo necessario per una breve preghiera. Luca Farina li ripropone quasi con lo stesso scopo, anche se a essere mostrata è sempre, e comunque, la sua musa-icona. C'è da segnalare, perché di disponibilità del genere ne vorremmo molte di più, la sensibilità del Salone Sartarelli che ai clienti, dopo una rivisitazione e un ammodernamento del look, offrono un tour nell'arte utile a dare una scossa alla materia grigia che si trova appena sotto chiome fluenti e fresche di shampoo. Ma noi lo sappiamo, l'obiettivo principale più che la mente, è il cuore.



Riscoperto” un altro film di Ivo Illuminati. “Tragico convegno” del 1915, dal Nederlands Filmmuseum al Cinema Ritrovato di Bologna

E sono tre. Dopo Selika (1921, conservato presso la Cineteca Nazionale) e Il vetturale del San Gottardo (conservato sempre presso la Cineteca Nazionale e presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2011), grazie al Cinema Ritrovato di Bologna è stato possibile proporre, in Italia, Tragico convegno, un film del 1915 del quale Ivo Illuminati, nativo di Ripatransone, fu regista e protagonista. La presentazione del film, proveniente direttamente dall'EYE (come si chiama oggi il Nederlands Filmmuseum di Amsterdam), al festival bolognese, è la conferma di quanto pensiamo ormai da tempo, e cioè che i film di Ivo Illuminati, introvabili in Italia, siano presenti negli archivi delle meritorie cineteche internazionali che, molto più che da noi, trovano, restaurano e conservano quel cinema muto anticipatore di una delle poche forme d'arte “universali” del nostro tempo arido. Fra qualche anno, probabilmente, ci sarà dato di vedere anche Il re, le torri e gli alfieri (tratto da un soggetto di Lucio D'Ambra), film che la critica dell'epoca (siamo nel 1917) considerò un capolavoro assoluto. Ma torniamo alla storia del ritrovamento di Tragico convegno. Scrive Elif Rongen. “Nel 1957, quando la collezione Desmet venne donata al Nederlands Filmmuseum, la copia di distribuzione olandese di Tragico convegno (o, in olandese, Maria Pansa het kleine meisje) non era presente tra i circa 900 titoli. È riapparsa solo recentemente, in una collezione privata arrivata al Musuem nel 2000. I due rulli ritrovati sono in ottime condizioni, ma purtroppo il finale è mancante e le nostre ricerche in altri archivi FIAF non hanno dato risultati. Negli archivi cartacei della Desmet Collection abbiamo trovato però dodici fotografie, due manifesti e un flyer pubblicitario olandese. Il flyer presenta Maria Jacobini come la 'sorella di Francesca Bertini, famosa diva italiana' e offre una dettagliata sinossi di ogni rullo, includendo anche alcune battute di dialogo. Il restauro del film ha preservato i materiali esistenti, senza alcun intervento di duplicazione analogica o di colorazione Desmet. Tuttavia, poiché il film si interrompe bruscamente, abbiamo deciso di completarlo con una ricostruzione del finale, utilizzando la sinossi del terzo rullo contenuta nel flyer e sei fotografie originali. Il nuovo finale è stato unito alla coda del film con una giunta provvisoria, in modo da poter essere facilmente sostituita se, come ci auguriamo, il vero finale prima o poi salterà fuori. Il caso di Tragico convegno testimonia l'importanza di aver preservato l'intera collezione Desmet: solo ora che, dopo oltre mezzo secolo, la copia e i materiali cartacei sono stati riuniti, è stato possibile 'completare' il film”.
Curiosa la storia della presunta parentela fra Maria Jacobini e Francesca Bertini. Curiosa perché le due “dive”, oltre a non essere sorelle, si odiavano cordialmente rivendicando, l'una contro l'altra, il ruolo di prima donna del cinema muto italiano. Maria Jacobini però, una sorella l'aveva. Si chiamava Diomira, anche lei attrice e anche lei, come Maria e Francesca Bertini, era stata scoperta da Ivo Illuminati, l'unico, vero, originale talent-scout di attrici dell'epoca. Di Tragico convegno si occupò naturalmente anche la nascente critica cinematografica. Scrive Giovanni Lasi. “In una critica dedicata a Tragico convegno apparsa sulla rivista 'La Cinematografia italiana ed Estera', si sottolineano l'''eleganza', 'il garbo', 'il decoro', caratteristiche che accomunano gran parte della produzione Celio. Tra il 1913 e il 1914 la Casa romana può contare su un parterre di attori straordinari, come Alberto Collo, Emilio Ghione, Francesca Bertini, Leda Gys, nonché la protagonista di Tragico convegno, Maria Jacobini, interprete di solida formazione teatrale e, già nel 1915, stella riconosciuta del cinema italiano. Nell'occasione è affiancata da Ivo Illuminati, co-protagonista e regista del film. Dopo la parentesi Celio, Illuminati raggiungerà l'apice della carriera nel 1917, dirigendo per la Medusa Film, uno dei film più significativi della cinematografia muta italiana, Il re, le torri e gli alfieri”.
La grandezza di Ivo Illuminati, continua a essere certificata a ogni scoperta fatta, ovviamente, nelle cineteche e nelle collezioni estere. Per noi, popolo di smemorati e di distratti, alla riscoperta di un grande italiano dovrebbe far seguito almeno un accenno di ictus. E invece nulla. Con la cultura non si mangia, con il cinema muto si muore direttamente di fame.

Massimo Consorti

Chi ha voglia di vedere alcune immagini di Tragico convegno:



Cinema ritrovato. Ci sono reperti e reperti...

Quello che si vede nell'immagine, è un proiettore cinematografico muto, modello Splendor della Prevost. È datato primi anni '20, l'avanzamento della pellicola è a mano e i fotogrammi al secondo sono 16. Al Cinema ritrovato si è visto anche questo, un proiettore da commozione cinefila pura, con tanto di “camino di scarico” per l'ossido di carbonio prodotto dai “carboncini” per l'illuminazione della pellicola: nessun fascio di luce, al cinema, è stato mai come quello prodotto dai vecchi, indimenticati, elettrodi o carboncini (cfr. Nuovo Cinema Paradiso su tutti). Stiamo parlando insomma, non di un reperto archeologico (come potrebbe sembrare a prima vista), ma di un vero e proprio proiettore ancora perfettamente funzionante che, nel corso di una serata di cinema “tenero”, ci ha fatto riprovare il gusto di guardare i vecchi film muti rispettandone soprattutto il numero dei fotogrammi al secondo (aspetto niente affatto marginale). Così, in rigoroso ordine casuale, nella stracolma Piazzetta Pasolini della Cineteca di Bologna, sono stati proiettati 7 brevi (e brevissimi) film che vanno dal 1903 al 1907, tutti appartenenti dal Gaumont Pathé Archives. Il primo, più che brevissimo, è stato Panorama de Constantine, 2 minuti a 16 fotogrammi al secondo, un bianco e nero da urlo anche se per, praticamente, una cartolina di immagini in movimento. Poi sono iniziati i film comici e quelli drammatici (con tanto di morti truculente), virati e non, qualcuno dotato di un suo fascino altri meno. Elencarli equivale a mettere in fila stati d'animo, e lo facciamo esattamente con questo scopo. Douanier séduit (1907); Les voleurs incendiaires (1907); Trois sous de poireaux, per la regia di Georges Hatot (1907); Le bagne des gosses (1907); La Vengeance du clerc du notaire (1906) e il “fantastico” Les roses magiques, per la regia di Segundo de Chomón (1906). C'è da dire, che senza questi primi, rudimentali film girati a macchina unica, molti capolavori del cinema muto non sarebbero esistiti. Dai lever de rideau ai cortometraggi, gli inizi del cinema senza voce sono serviti a dettare le regole di tutta la cinematografia che sarà fino al 1927 quando Il cantante di Jazz cambierà il mondo. 



Il Cinema ritrovato. Il suono della suspence: Alfred Hitchcock e Bernard Herrmann “letti” da Timothy Brock

L'uomo che sapeva troppo, Psycho, Intrigo internazionale e Vertigo: quattro colonne sonore scritte da Bern Herrmann per Hitch, quattro pagine indimenticabili nella storia della musica da film. Il mini concerto dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, prima dei fuochi artificiali tatiani sullo schermo, ha rappresentato la degna conclusione di un Festival che dà alle colonne sonore (restaurate o eseguite dal vivo) un peso quasi pari a quello delle immagini. E se a dirigere il concerto viene chiamato Timothy Brock, che fra tutti è il maggior esecutore di colonne sonore oggi al mondo, il conto è presto fatto e il risultato finale si può dare per scontato: un brivido continuo lungo la schiena (caldo permettendo). Il Cinema ritrovato aveva già omaggiato Alfred Hitchcock riproponendo la versione restaurata di nove pellicole del periodo muto inglese, ma nella serata finale ha voluto fare e dare di più, e ha proposto quattro vere e proprie sinfonie da film come forse ci è capitato di ascoltare solo in Nino Rota per Federico Fellini. Strano e intenso il rapporto fra il regista inglese e il compositore americano. Strano perché paragonato al cappuccino. “Il latte è il latte e il caffè è il caffè – dice Gian Luca Farinelli – ma insieme, non si sa perché, danno vita al cappuccino che è meglio.” Priva di ogni riferimento a immagini, l'esecuzione dell'Orchestra del Teatro Comunale è esemplare. Chi ha visto i film, riesce perfino a riconoscere le sequenze e, con un po' di fantasia, a vedersele scorrere davanti agli occhi. Chi non ci riesce si annoia, rumoreggia, suona le percussioni fuori dal “recinto” di Piazza Maggiore, indispettisce e irrita più delle zanzare che evidentemente a Bologna, dalle parti della Piazza, non ci sono o, se ci sono, pizzicano altrove. Più da cronisti che da critici (c'è poco da criticare nella perfezione), ci siamo chiesti cosa sia successo, a un certo punto, sul palco dell'orchestra. Abbiamo avuto la fortuna di assistere alle esibizioni di Timothy Brock in altre circostanze e in altri contesti (sempre con Chaplin sullo schermo), e sappiamo che il direttore d'orchestra inglese (di più, di Londra) è persona affabile, dotata di classe sopraffina, estremamente disponibile ed educata. Per cui ci siamo sorpresi quando abbiamo visto Brock quasi sbattere le partiture sul leggio, non lasciare il palco (per poi tornarci) fra le esecuzioni di Intrigo internazionale e Vertigo, non tornare sulla scena per un ultimo, strameritato applauso. E sorpresi esattamente come noi, devono essere rimasti i professori dell'orchestra che lo hanno atteso per qualche minuto; poi, in ordine sparso, come non accade neppure alla fine delle prove, hanno lasciato il palcoscenico quasi fuggendo. Non sappiamo la ragione del comportamento di Timothy Brock. Non sappiamo, ad esempio, se gli sparuti applausi in mezzo ai brani eseguiti senza aspettare la fine, lo abbiano innervosito. Non sappiamo se il silenzio (mancante) nei momenti di “diminuendo”, lo abbia maldisposto. Non sappiamo se le percussioni che hanno continuato a imperversare, pur se in lontananza, per tutta la durata del concerto, lo abbiano a un certo punto stancato. Quello che è certo, è che il Timothy Brock del concerto finale del Cinema ritrovato non è il maestro che conosciamo, al quale la famiglia Chaplin ha affidato il restauro e l'arrangiamento orchestrale delle colonne sonore dei film di Charlot. Non è il Timothy Brock delle riesecuzioni dei film di Carl Theodor Dreyer. Non è il “Sir” famoso nel mondo per la sensibilità maniacale da cinefilo puro. Il pubblico, freddino in verità, non lo ha certamente aiutato. Chissà, forse con qualche immagine sullo schermo...



Il Festival del Cinema ritrovato. Lo ricordate Jacques Tati?

E chi se lo ricorda, Jacques Tati? Persi fra quattro comici d'accatto dalla volgarità direttamente proporzionale alla loro scempiaggine, spesso dimentichiamo che perfino un film del 1936 e un altro del 1949 possono farci ridere a crepapelle. Non occorre attraversare l'Oceano a bordo del Titanic per imbattersi in alternative validissime ai Charlie Chaplin o ai Buster Keaton. Basta fare un salto a Bologna durante il Cinema ritrovato, e si rientra in contatto con un certo Jacques Tati, francese fin dentro il midollo ma con una visione della comicità universale, e ci si rende conto che si può anche ridere di una bicicletta che corre da sola o di un palo che non ne vuole sapere di star su. Serata finale del Cinema ritrovato, Piazza Maggiore strapiena come le sere precedenti. Tocca a Jacques Tati e a Soigne ton gauche (Cura il tuo sinistro - 1936) e poi ancora a Tati, stavolta regista e interprete di Jour de fête (Giorno di festa – 1949). Nel primo l'artista è diretto da René Clément e gioca a fare il pugile che combatte contro un avversario inesistente nell'aia di una casa di campagna. Quando gli toccherà salire davvero sul ring, le situazioni comiche si dipaneranno a una velocità tale che le risate saranno inevitabili, come forzatamente voluta è la voglia di non caricare di sovrastrutture lessicali un mediometraggio (13 minuti la durata) che tutto sommato è solo una comica. Jacques Tati non è un attore di cinema. Gira il mondo con la sua compagnia di varietà (avanspettacolo), che raccoglie successi e fortune. Ma il cinema lo vuole e lo cerca fino a quando René Clément, impegnato nella regia di un altro lavoro, gli cederà il posto per Jour de fête. Nasce così, per caso (dice Philippe Gigot: “Se Clément fosse stato libero probabilmente il cinema mondiale avrebbe dovuto fare a meno di uno dei suoi più geniali rappresentanti), l'astro di Jacques Tati. Gira il film ambientandolo in campagna e, come a voler continuare lo scenario di Soigne ton gauche, ci infila dentro quasi gli stessi personaggi. Stavolta però il postino (e che postino!) è lui, François, l'uomo che di spalle somiglia terribilmente a Charles De Gaulle. Jour de fête è del 1949. La seconda guerra mondiale è finita da poco e la Francia è alla ricerca spasmodica di una identità perduta. Vincent Ostria, nella critica al film, vede addirittura nella difficoltà di innalzare il pennone con il tricolore il tentativo di riappropriarsi delle radici di un popolo; e nel film visto per caso, in un baraccone della fiera, sulle nuove poste americane supermoderne e superfunzionanti, vede il tentativo francese (di Tati in questo caso) di battere, per spirito di abnegazione e coraggio, anche i temerari portalettere statunitensi. Di tutti i film di Jacques Tati, Jour de fête è il più fisico, il più keatoniano, quello che si avvicina maggiormente agli stilemi da comica hollywoodiana. Tati è una forza della natura che, a bordo di una bicicletta che sembra vivere di vita propria, ne combina di tutti i colori. Che quella di Tati sia una comicità ancora estremamente efficace, è messo in risalto dalle risate della gente in Piazza Maggiore: non uno sganasciamento, ma poco mancava. Scrive ancora Vincent Ostria: “Quella che Tati mostra è la Francia del passato, la stessa che il regista-attore contrapporrà nettamente, in Mon Oncle, al mondo moderno, duro ed ermetico; un mondo che invaderà tutto lo spazio in Playtime”. C'è da aggiungere, a conclusione, che nel caso di Jour de fête i francesi hanno rimediato una delle più brutte figure “artistiche” in cento anni di immagini in movimento. Famosi nel mondo per il lavoro di recupero e conservazione dei film che ne hanno fatto la storia cinematografica, stavolta ai francesi è venuto in mente di colorare digitalmente l'unica copia in bianco e nero in circolazione. Inutile dire che il lavoro di ripristino dell'opera originale di Tati, è stato difficilissimo e ottenuto solo grazie alla presenza, negli Archives Françaises, di un controtipo su nitrato d'argento. Ahi ahi ahi madame la France!



Festival del Cinema ritrovato. Hiroshima mon amour 54 anni dopo: se Marguerite Duras...

Guai a parlar male dei “miti”, si corre il rischio di prendersi una pallottola in pieno petto. Il fatto è che non si stava parlando male di Hiroshima mon amour (operazione impossibile e un po' da mentecatti), la riflessione riguardava piuttosto il taglio che Marguerite Duras, nel ruolo di sceneggiatrice, da al monologo tutto al femminile, lungo 92 minuti, che caratterizza il film di Alain Resnais e l'interpretazione ancora oggi stupefacente di Emmanuelle Riva. Come tutti coloro che amano il cinema ormai sanno, Hiroshima mon amour è una di quelle classiche pellicole che si presta alle interpretazioni più fantasiose. Spesso qualcuno ne coglie il senso profondo e ne offre una lettura aderente al lavoro. In altre occasioni, invece, si tende a diventare tutti psicanalisti e critici cinematografici, e gli effetti sono devastanti. La prima volta che vedemmo Hiroshima mon amour fu al circolo Arci di Urbino, una tombola di anni fa. All'uscita, piuttosto che raccontarci dell'impossibilità dell'unione e della pienezza di sé, della vittoria della segmentazione, del frammentario e della dissociazione di quello che era stato lo splendido gioco di specchi di Resnais, ci lasciammo andare a un corteo spontaneo, la cui parola d'ordine era “USA boia”. Più tardi, non di molto, ci soffermammo sulla tecnica del montaggio discontinuo, sulla differenza d'impostazione dei due direttori della fotografia (Sacha Vierny e Michio Takashi), della diversità profonda dei narrati francese e giapponese ma, soprattutto, “sul senso quasi borgesiano dell'impossibilità di essere uno perché viviamo nell'istante, e ogni istante ci condanna alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi” (Jean Douchet). Terminata la proiezione, con ancora negli occhi un altro splendido restauro curato dalla Cineteca di Bologna diretto da Renato Berta, ci stavamo soffermando sulla ripetitività della struttura narrativa curata dalla Duras, quando uno spettatore con qualche anno più di noi sulle spalle, si è infilato in una discussione sulla “anti-retorica” di Resnais quando a nessuno era venuto in mente di citarla. “La colpa è dei sottotitoli italiani – ci ha detto rimproverandoci – e della voce troppo teatrale di Andreina Pagnani”, che della Riva è stata la doppiatrice nella edizione italiana. Peccato che la voce della Riva di questa sera, fosse quella originale (il film è sottotitolato) e che nessuno si è sognato di dare del “retorico” a Resnais né tantomeno a Marguerite Duras. Il problema, in fondo, è sempre quello. Oggi di cinema parlano tutti, ma proprio tutti, qualcuno si spinge oltre e si avventura in disquisizioni analitiche senza alcuna via d'uscita. Far tesoro del dono del silenzio mai. Ora sappiamo a chi indirizzare quella famosa pallottola in pieno petto.



Il Festival del Cinema ritrovato. Il giorno di Agnès Varda e di La Pointe-Courte

Eccola di fronte a noi. Ancora più piccola di quanto immaginavamo. Gian Luca Farinelli dice semplicemente “Agnès Varda” e il pubblico si spella le mani. La Pointe-Courte è il primo film della regista franco-belga, datato 1954 (uscito nel 1956). Dicono che rappresenti un accenno (magari inconsapevole) alla Nouvelle Vague che esploderà di lì a breve. Madame Varda dice, spiazzando tutti: “Non so cosa rappresenti questo film per la storia del cinema francese. Quello che so è che l'ho girato esattamente come volevo che fosse”. André Bazin scriverà: “La storia che ci racconta Agnès Varda è la più semplice del mondo, è una storia d'amore. Un uomo e una donna sono sul punto di separarsi dopo quattro anni di convivenza. L'uomo trascorre le vacanze nel suo villaggio natio, un borgo di pescatori che si chiama Pointe-Courte. La donna lo raggiunge per annunciargli la separazione definitiva, ma...”. Sulla scia della filosofia neorealista, Agnès Varda sceglie gli abitanti del luogo come attori, ad esclusione dei due protagonisti. Lei è Silvia Monfort, attrice non troppo affermata, ma già vista al cinema. Lui si chiama Philippe Noiret ed è al suo esordio davanti alla cinepresa. Fino a quel momento, tanto teatro. La storia d'amore dei due finisce inevitabilmente per intrecciarsi con la vita di tutti i giorni di un borgo di pescatori costretti a sbarcare il lunario pescando a strascico molluschi inquinati. E nelle ore di svolgimento della storia accade di tutto, compresa la visita di due solerti funzionari dell'ufficio d'igiene, la morte di un bambino, i primi passi dell'innamoramento di due ragazzi destinati a un probabile matrimonio. Il bianco e nero della pellicola è folgorante. Il restauro compiuto dalla Cineteca di Bologna sotto la supervisione della stessa Agnès Varda, è perfetto, senza una sfumatura fuori contesto, anche se a volte ci è capitato di notare come le tonalità dei grigi tendano a scomparire. Poi la recitazione: alla Dreyer (Carl Theodor) o alla Antonioni (Michelangelo), volti sovrapposti e sguardi apparentemente persi nel vuoto. Dialoghi lenti, sempre pacati, nulla a che vedere con la nuova commedia francese, piuttosto una rivisitazione di Clément (René) o dell'altro René (Clair). Qualche incertezza di movimento di camera, ma che si può pretendere? È un'opera prima e non ci sono carrellate hitchcockiane. In compenso c'è, in fieri, tutta Agnès Varda, quella di Loin du Vietnam e di Sans toit ni loi. C'è la Varda dei rapporti umani complessi con sullo sfondo le vicissitudini della quotidianità pesante degli anni '50, divisa fra povertà e voglia di affrancamento. Eccola davanti a noi, la piccola, coraggiosa, esemplare Agnès Varda: un pezzo di storia di cinema francese, un pezzo di storia del cinema per chi ama capire.



Bologna. Il Cinema ritrovato. A Piazza Maggiore “I proscritti” di Sjöström: un capolavoro datato 1918

Il fatto è che non ci scappa il termine “capolavoro” per un film da una decina d'anni, e l'ultima volta che lo abbiamo fatto ce la siamo dimenticata: non era evidentemente un capolavoro. Diverso, totalmente, il discorso del secondo film di Viktor Sjöström (il primo fu Terje Vigen del 1917), un grandissimo regista svedese uscito come nuovo da una operazione di restauro degna della massima lode. Berg-Ejvind och hans hustru, tradotto in italiano in I proscritti, figura ancora, con buona pace di Ingmar Bergman, al primo posto dei film più costosi della storia del cinema svedese, e lo si capisce vedendolo. Girato in condizioni estreme nel nord della Svezia, I proscritti narra “la storia Ejvind (lo stesso Sjöström), un uomo in fuga dal passato e costretto a rifugiarsi sulle montagne con Halla, la donna amata, interpretata da Edith Erastoff che era, anche nella vita, la moglie del regista-protagonista”. Il fondo etico, chiamiamola la “morale” del film, consiste nel principio che sono la povertà e l'indifferenza, e non una qualità intrinseca del bene e del male, a fare di un uomo un fuorilegge. E che a dividere gli uomini, fino all'odio, in fondo sono la fame e la disperazione. Che scenari, quelli ripresi da Julius Jaezon che dei Proscritti è il direttore della fotografia! E che spettacolarità le scene alle quali la colorazione a mano (il tinting and toning del montaggio – quella che oggi chiameremmo post-produzione) regala quel sapore agro-dolce del dramma, e di una storia d'amore fortissima ed esclusiva, che avrà il suo epilogo in una notte di tempesta di neve, con un abbraccio mortale finale da lasciare senza fiato. C'è da dire che, se volessimo approfondire alcuni aspetti tecnici, non potremmo fare a meno di non notare come la colorazione a mano, classica dei film dell'epoca “muta”, lontana dal rappresentare un escamotage per attrarre il pubblico con bassi tentativi manipolatori, rappresenta le diverse situazioni narrative sviluppate nel plot. Il passaggio dall'azzurro al rosso, dalle tonalità di grigio al bianco e nero totale, insieme alla musica, contribuiscono ad accentuare (non di poco) la drammaticità (o la spettacolarità) delle diverse sequenze. Inoltre c'è da aggiungere come, in almeno un paio di passaggi, si abbozzi un rudimentale tentativo di campo-controcampo (siamo nel 1918, è bene ricordarlo) e si assista a esibizioni dello stesso Sjöström che denota un'abilità pari quasi a quella del Sylvester Stallone di Cliffhanger. Tutto intorno, ricostruzioni maniacali di contesti e un paesaggio lunare da sbalordimento. Il lavoro sapiente di restauro del film da parte dello Svenska Filminstitute, ha riportato alla luce il capolavoro di Sjöström così come il regista lo aveva concepito. Ha restituito la colorazione originale e perfino lo stesso formato dell'epoca, quel full-frame senza il quale le scene avrebbero perso molta della loro spettacolarità. Berg-Ejvind och hans hustru ci ha commosso, stupito, emozionato. Parlare in questi termini di un film muto potrebbe sembrare fuori luogo, ma lo è solo per chi intende la gloriosa stagione del cinema senza parola come la parodistica visione delle comiche a poco prezzo (sicuramente non quelle di Charlie Chaplin e di Buster Keaton). Il cinema muto ha dalla sua la possibilità unica di mostrare volti ed espressioni, ghigni e lacrime, risate e occhi languidi. Il cinema muto ha in sé la forza di un meta-linguaggio che sfonda ogni barriera idiomatica per approdare all'immaginifico di situazioni reali ma finte, surreali quanto grottesche, quasi sempre coinvolgenti. Se al capolavoro (è la terza volta che usiamo questo termine) di Viktor Sjöström, aggiungiamo la prima mondiale (proprio così, a Bologna) della colonna sonora appositamente commissionata al Matti Bye Ensemble, che nobilita ogni passaggio dell'opera, si può tranquillamente affermare che lì dove non possono le immagini, subentra la musica, ed è vibrazione continua. Una citazione, quindi, merita anche il Matti Bye Ensemb e, tanto per imitare colleghi che parlano di cinema e dei cast come fossero le formazioni delle squadre di calcio, desideriamo ricordare i musicisti che hanno reso con la loro musica, una normale serata in una notte piena di stelle. Matti Bye, leader dell'ensemble, è il pianista; Kristian Holmgren, il percussionista (con tanto di tubular bells alla maniera di Mike Oldfield); Leo Svensson, il contrabbassista; Nils Berg, flauto, clarinetto e violino (aggiungiamo la sega suonata con l'archetto); infine Lotta Johansson, violinista di rara incisività pur in assenza di virtuosismi. Se c'è una considerazione da fare al termine di una serata illuminata dalle stelle (non solo in cielo), è che il Cinema ritrovato è uno dei pochi festival al mondo che consente di nominare la parola “cinema” senza provare un po' di vergogna.



Teatri Invisibili 2012. La tenerezza tutta al femminile di Marta Cuscunà

Ne ho avuto la conferma. Ci sono donne che fanno amare le donne e ci sono donne che le fanno odiare...le donne. Non si capisce per quale ragione le seconde stiano prendendo il sopravvento sulle prime, forse vale la logica della virilizzazione o forse, più terra terra, l’incapacità di essere donne sentendocisi. Il femminismo per niente d’accatto di Marta Cuscunà parte da lontano, addirittura dal Cinquecento e mica da una corte “illuminata”, semplicemente da un convento, il Santa Chiara di Udine. Le Clarisse, si sa, hanno una marcia in più e, fedeli all’icona della loro fondatrice, una qualità che altri ordini di suore non hanno: la femminilità. Accade così che da un corpo esile come quello di Marta Cuscunà, fuoriesca una potenza drammaturgica che mi ha piacevolmente colpito e, per molti versi, ammirato. Dello spettacolo della giovanissima attrice di Monfalcone salvo tutto anzi, l’ho trovato degnissimo anche nella parte narrata, quella che alcuni spettatori hanno trovato “noiosa” e che invece a me è sembrata “indispensabile”. Credo sia inutile citare narratori ben più famosi di Marta Cuscunà, ma sembra che il Nord-Est, oltre ai mali politici ormai endemici che lo affliggono, riesca a proporre personaggi di una levatura straordinaria. Così, con una voce che ne diventa otto (compresa la sua originale), una padronanza pressoché assoluta nell’uso dei puppets (preferisco il termine anglosassone a “marionette”), lo spettacolo si slarga in una marea di considerazioni sul ruolo della donna che alla fine non può non farcele amare. Che le donne siano più sensibili, acute, argute, disponibili degli uomini, credo sia un fatto oggettivo ma, da quando è venuto fuori che una ricerca scientifica le ha definite più intelligenti, del loro universo fantastico non mi sorprende più nulla. Buon esordio, per me, ai Teatri Invisibili 2012, una manifestazione che seguo ormai da anni e che da anni non smette mai di sorprendermi piacevolmente 


Il buio e oltre ancora. L'ultima replica all'Aikot27

Stavolta il compito è facile. Non commento il testo. L’ho scritto io. Ci mancherebbe... Però trovo interessante, da vecchio e smaliziato critico teatrale, provare a recensire un monologo scritto dallo stesso critico che, credo caso unico nella storia del teatro (a meno di improbabili pseudonimi), potrebbe divertirsi parecchio a stroncarsi. Ma non mi odio fino a questo punto. Per cui mi divertirò a parlare di chi il mio testo lo ha messo in scena: Vincenzo Di Bonaventura, attore solista. L’ambientazione è l’America del profondo sud, nel 1962. Razzismo acclarato e non strisciante, bacchettonismo all’eccesso, privazione di qualsiasi forma di convivenza civile, monoreligiosità, iperrepressione sessuale. Vincenzo di Bonaventura interpreta, nell’ordine, Jonathan Wilson, l’avvocato; Abraham Wistley, il negro; Jeremy Wilson, il padre di Jonathan; e Il Buio. L’attore è uno e interpreta i cinque personaggi, con un’abilità nell’intonarne le voci che fa il paio con la dimestichezza nell’affrontare cinque caratteri di cinque personalità diverse. Di Bonaventura parte lento, con un vecchio spiritual che, pur non contemplato nel testo originale, meglio di ogni altro trucco scenico disegna immediatamente il contesto. Allo scorrere lineare del testo, preferisce la variazione per flashback e, specie all’inizio, il suo raccontare scene apparentemente senza nesso può causare qualche smarrimento. Ma è solo un momento, perché poi la storia si dipana logicamente,e l’orrendo delitto di cui il nero Abraham Wistley è accusato (lo stupro di una giovane ragazza bianca) si rivela per quello che è: un’accusa infondata a sfondo razzista. Vincenzo Di Bonaventura fa vibrare corde drammatiche come pochi. La sua voce monologante alterna insulti e sospiri, prese d’atto e prese di coscienza fino al senso totale di impotenza che la coglie nel momento in cui si rende conto che nulla potrà fare per cambiare una storia dal finale segnato. L’abilità dell’attore consiste nel dare alla storia quel ritmo incalzante che la voce scandisce, nel porsi sulla scena padroneggiandola anche con il manichino nero che gli fa da partner nella povertà voluta di un palcoscenico su cui campeggia solo una poltrona che raccoglie parole. Ci sono attimi da brivido e momenti di una emozione che nessuna lettura potrà mai far provare a uno spettatore che ascolti “Il buio e oltre ancora” come una storia narrata da un nonno davanti al camino dell’inverno. E vibrano ancora le corde di un cuore che, alla fine, delle battaglie civili e del rispetto per l’altro ha fatto la propria ragione di vita. Il monologo termina con lo spiritual con il quale è iniziato e il passo lento di un attore che, in un’ora di spettacolo, ha raccontato in maniera impagabile cosa significa fare i conti con la propria coscienza. 




Il senso della estiva cultura alta: sveglia al collo, anello al naso. Sì, buana.

Anche questa sera ho avuto la sgradevole impressione di essere considerato un nativo con la sveglia al collo, l’anello al naso, le spalle curve a dire: “Si buana”. Non avrebbe senso altrimenti l’aver assistito, per sere e sere, a performance discutibili, organizzate da soggetti discutibili, con personaggi al limite dell’accoglienza a base di eduardiane, liberatorie pernacchie, con allestimenti al limite del dilettantismo da olimpiadi decoubertiniane e il solito intervento di colleghi accondiscendenti che scrivono: “Trattasi di alta operazione culturale”. Di quale cultura si parli ovviamente è inutile chieder conto, il problema è che si continuano ad osannare poeti che poeti non sono, scrittori che scrittori non sono, ex personaggi di un tempo che fu, malinconicamente sul viale del tramonto, avventurieri dello spettacolo provenienti tutti, rigorosamente, da Roma. Perché da queste parti se non vieni da Roma non sei nessuno e fanculo al pedigree. Capita quindi, che tre attrezzi dell’archeologia spettacolistica come Gianni Togni, Rita Dalla Chiesa e Franco Miseria si ritrovino l’intera città (e le immediate vicinanze) ai piedi proponendo una delle peggiori operazioni culturali degli ultimi 150 anni, denominata superbamente MEF (Musical European Festival) che dio li accolga presto fra le sua calde braccia perché non se ne può più. L’operazione di questa sera è al limite del comico. E non perché lo siano le stupende fiabe raccolte e adattate da Antonio De Signoribus, quanto per il contorno fintamente “Greenwich Village”, musica sperimentalmente disastrosa, un maledetto faro destinato a illuminare solo la chioma dei capelli della signora Gravina, ma che, sbattendomi contro la faccia, si è infilato dritto negli occhi. A un certo punto, pur di non perdere i particolari di una serata che pensavo si basasse su altre corde e ritmi, ho indossato gli occhiali da sole. Li ho tolti dopo che il terzo amico, passando, mi ha fatto la stessa domanda dei due che lo avevano preceduto: “Ma che c’hai la congiuntivite?”. Arrivando in Palazzina Azzurra a spettacolo iniziato, ho sentito da lontano la voce recitante le fiabe di De Signoribus, e mi sono detto: “Ma che ci fa qua Lina Sotis?”. A un certo punto mi è sembrato di sentire anche la voce di Geppi Cucciari, allora mi sono detto che forse avevo letto male le locandine. Invece no, era proprio Vanessa Gravina che, come tutti sanno, non ha alle spalle grandi performance cinematografiche né teatrali ma che il pubblico conosce come interprete di due fiction-pietre miliari della storia della televisione italiana: “Sospetti”, con “grandhotel” Sebastiano Somma e “Butta la luna” che aveva fra le protagoniste principali la pluricandidata all’Oscar Fiona May, proprio quella del salto in lungo. Precedentemente, la signora Gravina era stata nel cast de “La Piovra” e aveva dato il meglio di sé, interpretando la miniserie “Don Tonino”, con quel mostro antitetico della comicità che risponde al nome di Andrea Roncato. Dotata di una voce monotonica, Vanessa Gravina mi ha colpito per l’impegno profuso nel pronunciare perfettamente i termini e mettere quindi tutti nelle condizioni di comprenderli. Così facendo ha però tolto alle parole ogni possibile emozione. Ed è stata tanta la sua enfasi didattica, che si è spinta a sillabare perfino le ultime parole di un periodo, come e meglio della grande Paola Borboni nelle sue indimenticabili serate post-alcooliche. Lo confesso. Me ne sono andato. Non ce l’ho fatta ad aspettare la fine. Questa volta il sacro fuoco degli artisti della Capitale non mi ha neppure scaldato. Loro che di are dovrebbero intendersene, sono rimasti solo gli eredi del Ponentino ma senza Trovajoli.



 

Lito Fontana. Il “trombone destro” di Dio

Ce ne sono di musicisti bravi al mondo. A volte capitano anche da queste parti e quando lo fanno, come Lito Fontana che da queste parti c’è nato, non amano travestirsi né da Mozart né da Pat Metheny né da improbabili jazz man: fanno finta di telefonare al loro amico ristoratore per dirgli di tenere in caldo gli spaghetti con le vongole, finito il concerto arriveranno. Così, fra festival pseudo Jazz (quando arriverà il Pat ne noantri oltre Tronto, sarà tutta da ridere), aspiranti divi pop, rockstar in fieri e in pectore, ogni tanto succede di imbattersi in un genio perché Lito, fra i cinque migliori “ottonisti” del mondo e primo nella sua categoria, un genio lo è davvero. Lui il trombone mica lo suona, lo addomestica costringendolo a fare quello che gli passa per la testa. E se vuole smontarlo, perché dai pezzi singoli esca fuori comunque musica lo fa, alla faccia di quell’ultraquarantenne sempre adolescente che più che un mago del pianoforte è un accorto esperto di marketting (non è un refuso, tranquilli correttori!). Ma dicevo di Lito. Anteprima quasi assoluta del suo nuovo lavoro, “When I Walk Alone”, destinato a una tournée mondiale, del quale i fortunati sambenedettesi di ieri sera hanno avuto un sostanzioso assaggio. Il brano che da il titolo all’album l’ho trovato emotivamente devastante, con quel diavolo di trombone che svaria su toni e svisate come fosse la cara vecchia cornetta di Louis, con in più una dolcezza che scende lenta come il “caffè del marinaio” che scalda le viscere dopo un sorso. I tre movimenti di Bert Apermatt (Green, Yellow, Red) “E che è un semaforo?”, dice Lito sghignazzando, sono bellissime contaminazioni classico-jazz proprio come quegli altri tre di Elisabeth Raum. Poi, sempre lui, il maestro Fontana, accompagnato al pianoforte da un altro eccezionale solista che si chiama Fausto Quintabà, dice fra il serio e il faceto: “Sapete, questo pezzo è stato scritto per la tromba”, e giù una cascata di note che non penseresti mai un trombone riuscisse a tirare fuori. Un po’ sornione, un po’ consapevole padrone della scena, ripete che lui è un trombone (“ma non in quel senso”), e questa cosa gliela perdoniamo perché alla fine, imbracciato il bombardino, si mette addirittura a suonare Il Barbiere di Siviglia di un altro marchigiano doc, quel Gioacchino Rossini “titolare” del conservatorio nel quale Lito Fontana si è diplomato. Ascoltare uno strumento molto particolare, abituato all’um-papà um-papà, suonato in quel modo, mi ha fatto pensare che se ci fosse stato in platea il “bombardino” di una qualsiasi banda musicale, tornato a casa lo avrebbe preso a martellate. Che dire, concerto straordinario e un duo difficile da dimenticare. In attesa del Pat che, ovviamente, ci farà dimenticare che la musica è un’arte.





Gli Amanita all'Eau de Vie. Una serata a troppe voci dispari.

Carlo Cimino, Raul Gagliardi e Maurizio Mirabelli sono tre giovani musicisti calabresi che compongono gli “Amanita”, un gruppo Jazz che ripercorre e approfondisce alcune caratteristiche dinamico-musicali dei trii contrabbasso-batteria-chitarra. Dotati di buona tecnica musicale, secondo noi stanno ancora andando alla ricerca di una loro identità, o sound, come si direbbe delle band più affermate che lo hanno trovato. Non è un'operazione semplice, anzi. Forse è la scommessa vera di molti dei gruppi Jazz della new generation, quella di cercare una propria via di analisi, e poi di sintesi, che non ripercorra canoni già collaudati, con più o meno successo, da altri. C'è da dire che lo sforzo sembrerebbe premiare gli Amanita, ma un solo lavoro sulle spalle è ancora troppo poco per lasciarsi andare a considerazioni altre (e alte). Avendo frequentato per un po' di tempo uno strumento come la chitarra, ci riuscirebbe, ad esempio, difficile non essere contaminati da chitarristi non solo Jazz (e il caso Pat Metheny ci starebbe tutto) ma anche blues e rock. Il rischio della chitarra, tutto sommato, è proprio questo, non riuscire a staccarsi da modelli. Di Raul Gagliardi abbiamo apprezzato la pulizia dello strumento, un fare quasi a meno di sonorità artefatte, per inseguire il suono delle corde così com'è quando esce da un amplificatore. Di Maurizio Mirabelli, terribile l'acustica del locale per la batteria, un ritmo tenuto sempre sostenuto, pur senza grandi slanci di fantasia. Ci ha colpito positivamente Carlo Cimino, un contrabbasso potente e maturo, in grado di fare anche da controcanto alla chitarra. Gli Amanita, abbisognano di un ulteriore ascolto, troppi “vizi” di forma questa sera, per dare un giudizio che non risenta dell'ambiente, delle voci, della ristrettezza degli spazi, dell'incapacità della musica di uscir fuori senza “distorsioni” esterne. Una delle ragioni per le quali terminammo la nostra breve carriera di musicisti, fu quella che trovavamo quasi un vilipendio alla seconda arte, il rumoreggiare di piatti e bicchieri, il viavai dei camerieri, le risate e le battute a voce alta della gente. Non sappiamo perché, pur facendo solo un misero rhythm and blues, sentire ridere voci stentoree e fuori tono, ci faceva incazzare da morire. Quello che ci sorprende positivamente, dei musicisti delle nuove generazioni, è un limite di tolleranza altissimo che gli permette di esibirsi dovunque e con qualsiasi sottofondo. Il ristorantino Eau de vie, è sicuramente un luogo molto piacevole per una cena, magari in coppia. La bravura dello chef Nazzareno Spazzafumo, considerato lo sguardo soddisfatto dei clienti, è stata di una evidenza lapalissina. Una bottiglia di birra artigianale, Viola Bionda, per la precisione, ha fatto la nostra personale felicità. Gli ingredienti per una rilassante serata di Jazz c'erano tutti. Peccato mancasse la possibilità di ascoltarlo... il Jazz.






Gegè Munari al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno. Una serata di grande Jazz... Anni '70



Iniziamo a sgomberare domande che potrebbero venir fuori leggendo con fare ambiguo, e malizioso, il titolo. Gegè Munari e il suo gruppo sono fior di professionisti. Discuterne le qualità tecnico-musicali sarebbe come offendere la musica e, in questo caso il Jazz. Sono bravi; il fatto è indiscutibile. La fregatura è che da una decina d'anni a questa parte, volenti o nolenti ci siamo abituati a un altro tipo di Jazz. Lo definiamo più fantasioso? Più armonico? Più contaminato? Ecco, tutto ciò cozza, ma non fino ad annullarsi, con il concerto di questa sera, ascoltato per altro con PiGi Camaioni, un altro musicofilo un po' a modo suo del nostro Web Magazine. È lui che ci fa notare, a inizio di Will You Still Be Nine: “Un po' rigido questo schema, vero?” È stato allora che abbiamo iniziato a prendere appunti e lo schema che è venuto fuori, rigido quasi quanto una Sura, è stato il seguente: tromba, sax tenore, pianoforte, pianoforte, sax tenore, tromba. Che è un po' come compiere sempre lo stesso viaggio di andata e ritorno, insomma, roba da pendolari. Il pianoforte, eccezion fatta per gli assoli e le improvvisazioni (molto poco improvvisate, tanto che siamo convinti siano le stesse a ogni concerto), è la base armonica del gruppo, accordi e riempitura. Il contrabbasso e la batteria configurano, insieme, una base ritmica estremamente raffinata ma quasi mai poderosa. Sax e tromba sono le melodie ma, uno strumento alla volta per carità, un duetto o un fraseggio avrebbe sicuramente rovinato uno schema matematico pressoché perfetto. Ed è arrivata una bossa nova, nel caso specifico Ceora. È stato a questo punto che PiGi ha inaugurato il suo repertorio tutto basato sull'avanspettacolo (ragioni evidenti di età), iniziando a vedere sulla scena Delia Scala, Nicola Arigliano, Bruno Martino e noi, un po' più cinematografari, Alberto Sordi che balla da solo, ubriaco, nel salone del Ritz di Montecarlo. Ma è stato solo uno sfruculiamento momentaneo, subito interrotto dall'esecuzione di Airegin e, soprattutto di Lady Barbara (probabilmente Bush) che ha swingato un po' la serata. Finita la prima parte, non andando fortunatamente a vapore ma apprezzando ancora il profumo e il sapore del tabacco vero, siamo usciti a fumare una sigaretta nella speranza che la seconda parte ci consegnasse del Jazz un po' più attuale. In effetti, abbiamo assistito a belle prove “sole” ma maledettamente legate allo schema scientifico di cui abbiamo già parlato. La sensazione finale, a parte due slow, un mezzo swing e Ceora, è stata quella di aver ascoltato per due ore la stessa canzone. Fino a poco più di dieci anni fa, il Jazz in Italia era questo, e chi si permetteva di andare oltre, veniva tacciato di sacrilegio. Ora non è più così e, mentre abbiamo visto gli spettatori di una certa età tiptare entusiasti al ritmo sincopato di Gegè Munari, i più giovani hanno decisamente stentato a seguire il filo di una musica che, a un certo punto, somigliava tristemente a se stessa. C'è da dire che, andati al Break Live per ascoltare Gegè Munari, alla fine abbiamo scoperto Marco Ferri, un sassofonista straordinariamente bravo che ci piacerebbe ascoltare in un contesto un po' più musicalmente anarchico. Però possiamo assicurarvi, che da già da solo valeva il prezzo del biglietto. Più frenato e anche meno tecnico, Francesco Lento, la tromba della band. Onesto e ligio al suo ruolo Vincenzo Florio al contrabbasso, mentre Domenico Sanna al pianoforte, solo in alcuni momenti è riuscito a evidenziare le doti che indubbiamente possiede. Di Gegè Munari non si può dire nulla di negativo. È uno dei padri del Jazz italiano, nel 1968 era già il batterista della mitica orchestra della Rai, ha il sincopato nel sangue, una straordinaria abilità nel destreggiarsi con le bacchette e le spazzole, un ritmo naturale che gli consente di non sbagliare un colpo. Ma è fermo al tempo che fu e non possiamo certamente chiedergli di essere quello che non è. Nota di merito, assolutamente dovuta, al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno, l'associazione che non più tardi di giovedì scorso ha ospitato Enrico Rava. Chi vuole ascoltare il Jazz con il pedigree deve rivolgersi a loro. Per chi ama un altro tipo di Jazz, le occasioni dalle nostre parti, non mancano.

Nessun commento:

Posta un commento